– Non mi tolga tutto il lutto, dottoressa,
me ne lasci la metà;
io non voglio che il mio cuore
sia sgombro per intero,
mi lasci la mancanza:
faccia male di notte,
se non dormo, ma se dormo,
se possibile, vorrei
non svegliarmi nel buio,
come se
non potessi respirare.
Mi tolga
l’impossibile che è che non si possa
più ascoltare la sua voce
e lo squillo del telefono mai suo
quando compio un altro anno
e non vorrei.
Mi lasci continuare
a guardare fissamente
se qualcuno beve
il caffè nel vetro
e faccia che io pianga
sulla torta di riso;
mi tolga il grido, se può,
la testa che sbatte,
il nero che fa
la fine.
Non mi resta che
la mancanza che è:
e se è il dolore che riempie
come un corpo
il mio corpo,
me lo lasci per metà.
Non voglio perdere
che ferisca
la lama che non taglia dei suoi occhi;
tolga il lutto che inginocchia,
che non crede, che mi chiude
in casa.
Mi lasci che mi facciano
male i fiori,
ma non tutti,
solo quelli
arancioni.
(inedita)
*
A chi posso dirlo
che non mi hai mai amata?
A tua mamma?
Posso dirglielo,
ché ti sgridi,
ti applichi l’educazione degli schiaffi,
tardivamente,
ti metta in un collegio,
più severo,
più diffamante,
più giusto e violento
degli occhi bui
con cui vedo ora
l’Universo guardarti,
scuotendo il suo capo di stelle spente,
inutilmente, sommariamente;
che ti corregga
finché non mi ami davvero
e impari a usare le parole,
che sono armi e veleni,
altroché rosolio,
altroché amoremio?
Posso?
Che il tuo amore non era vero
e comunque non eterno,
come dicevi tu,
posso dirlo ai carabinieri?
Alla polizia municipale
ai vigili del fuoco
al perito
al prefetto
al giudice di pace?
Serve dirlo ai tuoi amici tutti,
ché ti deridano molto,
fino a spiegarti il pianto,
prima il tuo,
poi il mio?
Oppure al mondo intero,
ché ti guardi con sufficienza e male,
additandoti
come
avessi ammazzato ogni amare,
avessi compiuto un genocidio
di vecchi baci in strada,
una strage dei giorni insieme,
truffa aggravata ai danni.
delle mie credulità?
O rimane tutto così?
Sordo muto,
senza forza nelle braccia,
sbigottito e solo, disamato,
niente,
come fosse lecito e normale
amare fortemente
e poi piano
e poi più.
(da In comode rate. Poesie d’amore, ed. Interno Poesia, 2019)
*
A un passerotto
Che cosa vuoi dalle mie rose?
E dove guardi?
Io guardo te, fisso.
Conto, con numeri a caso,
il poco che manca a che tu
mi voli via, trasformando,
con la tua magia sfacciata,
il movimento, il suono,
la vita,
in un vaso lasciato.
(da Mezze stagioni, ed. AnimaMundi Edizioni, 2021)

Beatrice Zerbini è nata il 17 gennaio 1983 a Bologna, città che le ha permesso, già̀ dal 1987, di dedicarsi allo studio del ritmo e della parola, grazie al celebre coro, diretto da Mariele Ventre, di cui ha fatto parte. A otto anni, ha iniziato ad avvicinarsi alla lettura e alla scrittura di poesie.
Nel 2006, ha aperto la pagina online di racconti tragicomici, e di poesie “In comode rate”, ma solo nel 2019, incoraggiata dai riconoscimenti da parte di alcuni critici, ha cercato e ottenuto la pubblicazione. In comode rate. Poesie d’amore (edito da Interno Poesia) è la sua opera prima in versi, ad oggi alla IV ristampa.
Testi e recensioni della raccolta sono comparsi in importanti riviste poetiche e in trasmissioni radiofoniche e televisive (Tv7 – Rai Uno, il Sabbatico – Rai News 24, Fahrenheit – Rai Radio 3). È stata ospite di diversi Festival, tra cui il PoesiaFestival, presentata dal Prof. Alberto Bertoni.
A giugno 2021 è uscito il libro Mezze Stagioni, una piccola raccolta di prose e suggestioni poetiche (per la collana Piccole Gigantesche Cose della casa editrice AnimaMundi Otranto). Dall’inizio del 2020, insieme alla musicista Alicia Galli, sta inoltre dedicandosi ad un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato, nella primavera 2021, anche uno spettacolo teatrale di musica e poesia, portato in diverse piazze del territorio emiliano-romagnolo.