Ci sono cose che ispirano gioia col solo compiersi della natura. Vorrei fare come vola un uccello – avere quel sentore di creatura.
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Come lucertole che abbiano perso la coda dall’eternità – come il fantasma di noi stessi presentiamo la divinità.
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Ma la cosa più difficile è amarci lontani – sentire che in me hai riposto un tesoro con le tue mani.
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Anche all’ombra delle nostre ferite, nel punto cieco delle cicatrici – non solo sdegnando gli dèi – si impara occultamente la magia.
Sofia Fiorini è nata a Rimini nel 1995 ed è laureata in Italianistica all’università di Bologna. La logica del merito (Interno Poesia, 2017. Premio Violani Landi sezione Poeti Inediti, finalista al Premio Rimini, finalista al Premio Solstizio Opera Prima 2018, secondo premio al Premio Prato 2020) è il suo libro d’esordio. Suoi testi sono inclusi nell’antologia Abitare la parola. Poeti nati negli anni Novanta (Ladolfi, 2019, a cura di Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello). I testi qui presentati sono tratti dal libro inedito La ferita magia.
Conservo la Siviglia dei tuoi sogni: quella della luce in piazza, nei luoghi noti – solo da toccare ancora. Natale e meta del nostro essere nudi e bambini tra queste bolle di sapone; rimaste
in tasca.
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A volte il cibo ti sembra avere lo stesso sapore dello sperma; il che – pensi conferma il tuo credo del durare del seme, del tempo al culmine delle cose. L’alimento che passa e bussa sulla lingua a reclamare la propria forma di stato eterno. Intanto è giorno e tu rimani con le gambe poggiate alla ringhiera di quell’unico spazio esterno che riesci al momento ad abitare. Continui a masticare in un impasto denso di sensi di resti di semi rimasti tra i denti che cerchi in ogni modo di levare. Basterebbe lavarli lavare ciò che si ancora vicino all’angolo del mento.
Ciò che resiste sulla parte della bocca che la tua mano ancora tocca a memoria.
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Voglio giocare a farti venire avanti – e indietro per un passo; solo a toccarti la punta del naso con fili
d’erba bruciata. Agosto è il tempo dei fantasmi: ogni ombra ha forma storia posto
qui: noi ne sentiamo la pelle.
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Hai scavato con i denti il letto dell’unghia quasi fosse della fossa il simbolo stretto nel solco dell’ultima terra. Senti intanto detto il tuo nome al reparto surgelati: richiamato all’attenzione, eri entrato solo a comprare funghi – a cercarli immolati per la cena. Ti ritrovi al contrario distratto nella degna anticipazione del lutto: la tua carne a contatto con gli strati proliferati di spore e miceti.
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E nel tuo tiepido farti lattea simile alla consistenza del riverbero oltre quella finestra
mi chiedi com’è quando parti; e dei ritorni mi sveli il segreto – tu; ché io posso solo rispondere
come unico il mare, amuleto degli uomini, si stenda sulle terre vergini – tra la luna e il nostro senso.
Arianna Vartolo è nata nel 1998 a Roma, dove vive. Studia Lettere Moderne all’Università “La Sapienza” di Roma. L’aiuto a non morire (Cultura e Dintorni Editore, 2019) è la sua opera prima in versi. Compare anche nell’antologia Abitare la parola: poeti nati negli anni Novanta per Giuliano Ladolfi Editore (2019). Di lei è stato scritto, tra gli altri, su ClanDestino, Pangea, Laboratori Poesia. Alcuni suoi inediti sono apparsi su riviste cartacee e online tra cui Atelier e Inverso.
– Non mi tolga tutto il lutto, dottoressa, me ne lasci la metà;
io non voglio che il mio cuore sia sgombro per intero, mi lasci la mancanza:
faccia male di notte, se non dormo, ma se dormo, se possibile, vorrei non svegliarmi nel buio, come se non potessi respirare.
Mi tolga l’impossibile che è che non si possa più ascoltare la sua voce e lo squillo del telefono mai suo quando compio un altro anno e non vorrei.
Mi lasci continuare a guardare fissamente
se qualcuno beve il caffè nel vetro
e faccia che io pianga sulla torta di riso;
mi tolga il grido, se può, la testa che sbatte, il nero che fa la fine.
Non mi resta che la mancanza che è: e se è il dolore che riempie come un corpo il mio corpo, me lo lasci per metà.
Non voglio perdere che ferisca la lama che non taglia dei suoi occhi;
tolga il lutto che inginocchia, che non crede, che mi chiude in casa.
Mi lasci che mi facciano male i fiori, ma non tutti, solo quelli arancioni.
(inedita)
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A chi posso dirlo che non mi hai mai amata?
A tua mamma? Posso dirglielo, ché ti sgridi, ti applichi l’educazione degli schiaffi, tardivamente, ti metta in un collegio, più severo, più diffamante, più giusto e violento
degli occhi bui con cui vedo ora l’Universo guardarti, scuotendo il suo capo di stelle spente, inutilmente, sommariamente;
che ti corregga finché non mi ami davvero e impari a usare le parole, che sono armi e veleni, altroché rosolio, altroché amoremio? Posso?
Che il tuo amore non era vero e comunque non eterno, come dicevi tu, posso dirlo ai carabinieri?
Alla polizia municipale ai vigili del fuoco al perito al prefetto al giudice di pace?
Serve dirlo ai tuoi amici tutti, ché ti deridano molto, fino a spiegarti il pianto, prima il tuo, poi il mio?
Oppure al mondo intero, ché ti guardi con sufficienza e male, additandoti come avessi ammazzato ogni amare, avessi compiuto un genocidio di vecchi baci in strada, una strage dei giorni insieme, truffa aggravata ai danni. delle mie credulità?
O rimane tutto così? Sordo muto, senza forza nelle braccia, sbigottito e solo, disamato, niente, come fosse lecito e normale amare fortemente e poi piano e poi più.
(da In comode rate. Poesie d’amore, ed. Interno Poesia, 2019)
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A un passerotto
Che cosa vuoi dalle mie rose? E dove guardi? Io guardo te, fisso. Conto, con numeri a caso, il poco che manca a che tu mi voli via, trasformando, con la tua magia sfacciata, il movimento, il suono, la vita, in un vaso lasciato.
Beatrice Zerbini è nata il 17 gennaio 1983 a Bologna, città che le ha permesso, già̀ dal 1987, di dedicarsi allo studio del ritmo e della parola, grazie al celebre coro, diretto da Mariele Ventre, di cui ha fatto parte. A otto anni, ha iniziato ad avvicinarsi alla lettura e alla scrittura di poesie. Nel 2006, ha aperto la pagina online di racconti tragicomici, e di poesie “In comode rate”, ma solo nel 2019, incoraggiata dai riconoscimenti da parte di alcuni critici, ha cercato e ottenuto la pubblicazione. In comode rate. Poesie d’amore (edito da Interno Poesia) è la sua opera prima in versi, ad oggi alla IV ristampa. Testi e recensioni della raccolta sono comparsi in importanti riviste poetiche e in trasmissioni radiofoniche e televisive (Tv7 – Rai Uno, il Sabbatico – Rai News 24, Fahrenheit – Rai Radio 3). È stata ospite di diversi Festival, tra cui il PoesiaFestival, presentata dal Prof. Alberto Bertoni. A giugno 2021 è uscito il libro Mezze Stagioni, una piccola raccolta di prose e suggestioni poetiche (per la collana Piccole Gigantesche Cose della casa editrice AnimaMundi Otranto). Dall’inizio del 2020, insieme alla musicista Alicia Galli, sta inoltre dedicandosi ad un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato, nella primavera 2021, anche uno spettacolo teatrale di musica e poesia, portato in diverse piazze del territorio emiliano-romagnolo.
Senza titolo 3 Ancora, porto il buio di fronte ai miei occhi.
Lacrima al tempo, fama, il taglio, incide la sabbia di questa spiaggia, il cui mare sfocia nelle mie piccolezze.
Ed il male che sento è eco del vostro silenzio, è riflesso del macabro.
Nelle risacche dei vostri sorrisi, provo ad affogarmi: in bocca solo la sabbia ed il sale del mio tempo.
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Anniversario
Sorge dalla terra, il tempo per negarsi il tutto della vita.
Si deprime il pensiero, demoliscesi l’anima.
Ed è meraviglia, questo eterno dolore.
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L’inno dei giovani suicidi Occhi a terra, promessi, all’inferno dai cieli neri; vampiri d’emozioni, ci proviamo a chiamare; e come i deboli, delle menti, solo amaro possiamo donare.
E Dio, ancora, tarda a spiegare, annichilitosi, tra le nuvole, sperar, sembra che, l’affitto d’una vita, lo si debba pagare.
I piccoli rigagnoli, d’acqua, si vadano, a macchiare sulla terra, provando a colorare.
Ignare crescono le rose, sulle nostre carogne e veda l’uomo, che qualcosa sapremo amare.
E i nostri fiati, all’inferno sulle candele, vadano a buffare, peggio della vita, neppure la dannazione, può sembrare.
Pietro Edoardo Mallegni è nato a Carrara il 1 luglio 1995. Fin da piccolo nutre due grandi passioni: la cucina e la scrittura, amori che lo porteranno a intraprendere professionalmente la strada del cuoco e più marginalmente quella dell’appassionato scrittore di poesie. Nel 2013 ha pubblicato con la casa editrice Marco del Bucchia la sua prima raccolta, intitolata Il dedalo in me, nello stesso anno vince il premio “Michele Mazzella” con l’atto unico Geshua e il crollo dell’io, due anni dopo pubblica un’altra raccolta intitolata Il Dio Dada. Dal 2014 inizia a viaggiare per lavoro entrando in contatto con le grandi e lussuose cucine dei grandi alberghi, in uno di questi ha conosciuto Giulia la sua compagna. Nel 2017 è diventato babbo e ha deciso di tornare a vivere nella sua città natia. Tra il 2019 e il 2020, ottiene alcuni riconoscimenti tra i quali “ Menzione al merito per il concorso Internazionale di Poesia Fëdor Dostoevskij” ed è “ Poeta Finalista del Concorso Internazionale di Poesia Il Federiciano”. Nello stesso periodo escono due sue raccolte di poesia intitolate Neurocidio e Il nulla, rispettivamente pubblicate con le case editrici Limina Mentis ed Europa Edizioni.
La distanza allatta ogni domanda, spettina la pelle. E la tua lingua, stiracchiata, sussurra una voce disumana. Resta a galla una rete spoglia d’acqua. Se ami il giorno, rischi di fraintendere le stelle: il callo della malinconia è la doppia vita che sa fingere la nostalgia.
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Croce e delizia
Disumano inganno un canto semina nostalgia. È croce l’insegna di ansiose delizie che recano affisse sulle vetrate le chiese di campagna. Insistono rossori tra i nodi: spine, fiori tra i rovi.
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Se mi arrivasse infame a terra un alito di sera, la conferma del tuo odore appena colto – in una scusa buia, nuda carezza – ci gonfierebbe i cuori come cupole. Ma non è luce in me che non ti grida: sbalordisci la pelle e distogli l’attesa dalla promessa intuita. I frutti a terra e la luce che li irradia.
Vernalda Di Tanna (Vasto, 1997), laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” di Chieti, è studentessa di Filologia Moderna. Nel 2017 riceve il Premio poeta emergente alla XXV edizione del “Concorso nazionale Scriveredonna”, organizzato dall’associazione Tracce di Pescara. È presente nell’antologia Alessandro Quasimodo legge I Poeti Italiani Contemporanei. Vol. 1 (Aletti Editore, 2018), con un testo che è stato anche interpretato dalla voce di Alessandro Quasimodo (https://www.youtube.com/watch?v=qbf3cr7a7r4). Dal 2019, è redattrice del lit-blog Laboratori Poesia. Suoi inediti sono apparsi su riviste e blog, tra cui clanDestino, Interno Poesia, Poetarum Silva e laRepubblica – Milano (per la Bottega di poesia, a cura di Maurizio Cucchi), Inverso – Giornale di poesia.
Tremare è come mordere la fede di un luogo senza nome dietro a muscoli, organi e ossa, dove restare è comunque attraversare le umide mattine, brevi ruote del tempo.
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Procreare carne viva rimuta il clamore del primo cancello, quello in cui fummo fratelli desiderati, madri scomparse, padri raffermi al latte dei giorni, d’ora in ora acido conservatore ai canali delle mani che due sono, soltanto due, la destra all’invisibile, la sinistra alla carezza che ci fa bambini la sera, quando ancora nuotavi e il vento ti respirava la schiena dalle stanche lotte.
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Vorrei dirti:
Ho ritagliato me stesso, una volta al petto, poi dritto allo specchio, lì dove non mi vedo giovane ma putrido vecchio, un orecchio alla veranda, un braccio al corpo della notte, la sua mano a guardare il buio, dove l’ascolto non è altro che interminabile parola, insostenibile attesa.
Ti dico:
Su una collina il funerale, una famiglia al dirupo, poi dritti a casa, lì dove non si declama il verbo ma marcia frase, un cucchiaio a scavare gli aggettivi, un puzzo a demarcare il lutto, la sua scia a detonare le discussioni, dove domani e sempre ci sarà un inutile vanto, ovvero la santa pretesa di avere una logica nel dolore, associare termine a parola, sputare la grammatica agli sconosciuti.
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Lasciatemi così a dispiegare l’avvenire, aggrappato alle costole di mia madre, solo e sconfitto alle voglie dell’alba.
Lasciatemi così a ricongiungere i punti, martoriato alle mani di nero inchiostro, defunto neonato alle porte del domani.
Gianluca Ceccato nasce il 6 maggio 1997 a Latisana (UD) attualmente vive e studia a Padova. Fin dalla tenera età si appassiona alla poesia partecipando a vari reading tra Pordenone e Udine. Dal 2017 collabora con il sito Brakhu come curatore di una rubrica poetica dal nome “Suburbana” dove racconta la storia d’amore e odio in versi tra verde e urbano. Le sue poesie sono presenti su riviste online come Altrove, Il Visionario, Inverso, Poetry Factory, Poeticous, Typee, Open edizioni, Poeti Oggi e in numerose antologie tra le quali “Poeti Contemporanei” edita da Aletti editore, “IoPartecipo” edita da Dibuono edizioni e “Quadernetti poetici” edita da Sifaperfardelbene edizioni. Nel 2019 è finalista del Premio Tiburtino con la poesia “Una Notte”. Nel 2021 è uscita la sua prima raccolta poetica dal titolo “La Carne dei Muti”.
a D.C. D’in poi e dove copre la neve, ora, il freddo corpo di una lattina, il primo cielo di Dante in alluminio, il ragazzo rannicchiato, come un feto, nella foto dello spot contro il fumo, stampata sulla busta di tabacco Winston, a ricordare il rischio della morte e non la sua certezza, in un forse che è calcolo di probabilità esposte e rimosse – per un riflesso animale continuare a vivere, fumare – nell’immagine – senza didascalia l’uomo sarebbe solo un bambino, un’ecografia in fase avanzata, una vita. Sul palmo di ghiaccio del paesaggio offerto al cane artico una lunga pausa che annusa la luna possibile, i dendriti fioriti dalle rocce, le facce curve e questa tristezza analogica.
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Spopolamenti: in questi anni di adolescenze ci hanno abitati a frotte i corsi, ricorsi storici – rincorse storte nella terra semper tremata, semper dormiente sul ventre sognante, incubante, incubata nell’incubo che preme le veglie abortendole al giorno; il corpo che ne esce, che se-ne-(e)sce di casa, per la strada, alle tre e vede l’allucinata piazza, il cielo, la faccia nell’acqua piovana che fluttua in marcia di barche rovesciate nel porto di portici dove s-offre la restante parte: tutto è carne da macello e ignota cosa estesa sul foglio di una mappa catastale.
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Ci è morto un vecchio ucraino lì dentro, mi hanno detto. Cosa i topi rosicchiassero lui lo rosicchiava lo stesso, il faut bien manger tra le coperte messe sul corpo, i macchinari solitari abbandonati e gli schermi grigi e bombati dei computer solidali con lo scarto umano. Un cyborg ucraino o una chimera, oppure ancora entrambe le cose – che non sono cose ma viventi per eccesso o difetto. Prima e dopo della porta una traccia di sangue secco, quasi scomparsa, indica il percorso dell’incognita rimossa dall’essere al non essere, o piuttosto l’inverso, come a Pasqua – è vivo forse.
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Area interna, la cagna ringhia sul mento del bambino. Quali organi crescono e si ammalano dentro di noi? Le spoglie di amianto si incrinano e liberano il veleno nelle nari degli operai che moriranno poi – sapremo infatti che la storia era inscritta nel pane che mangiamo, nella casa che ci caccia alla strada, nella fabbrica abban- donata, dove lo spettro di Taylor misura il gesto facendo economia sull’ampiezza del braccio: lo sforzo deve essere ridotto ma costante, così da consentire al corpo una lunga performance, l’appropriazione di una cadenza spoglia di soggetto. Ora, qui, persino questa schiavitù è stata una promessa, adempiuta solo nel lutto, nella perdita di un posto a fatica occupato dal morto.
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e una congiunzione di uscita non c’è, al massimo un et introflesso che letto al rovescio ritorna “te”, nulla di ad-giunto o giunto da, cambiando il pre- fisso in ab (che in latino sta per “da”) ad indicare una provenienza esterna, aliena, cosmica. Il rest- ante appagato dorme, da sempre arrivato al suo orgasmo, che è la costante del soggetto: riprodursi in se stesso come deietto, liquido seminale che permane in una crosta incolore di ejaculazione retrograda, uno spettro al di là dello specchio, un alone di oggetto. Così nulla ci ha raggiunti entro il raggio di cento chilometri, ché la dentale preposta al resto ne occlude l’entrata, l’ingresso.
Antonio Vittorio Guarino (Napoli, 1985) vive ad Avellino. Laureato in Filosofia presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”. Ha pubblicato: La Vita Beota (Ed. Il Foglio Letterario, 2009), La caduta dalla giovinezza (Onirica edizioni, 2011), La costellazione dell’assenza (Fara 2016), opera vincitrice del VI concorso nazionale Faraexcelsior, e Cronicismi (Oèdipus, 2020). Alcune sue poesie sono presenti su antologie, riviste e siti web.
I rovi tra la neve troveranno un’altra luce un bastone di pastore a scavare gli anemoni e le bacche marce nella terra
a furia di urlare il mio nome si scheggia la tua voce o si affila come la punta di ghiaccio che pende sottile dalla casa diroccata –
allora tu dammi un altro luogo in cui inselvatichirmi, una pelle di ghiro mentre dorme nel rifugio fra le travi del pagliaio
chiamami col verso dei falchi o delle volpi donami le orme del lupo, gli occhi dei piccoli che cercano la madre e la sua bocca
feroce quando afferra il nuovo nato dalle zampe e il sangue che sgorga si fa pietra nel gelo, ossidiana – rovescio del bianco nel bianco.
Lorenzo Pataro, nato nel 1998, vive a Laino Borgo, in provincia di Cosenza, studia Lettere moderne a Salerno. Nel 2018 ha esordito con “Bruciare la sete” per i tipi di Controluna, con prefazione di Eleonora Rimolo, finalista al premio Solstizio opera prima. Sue poesie sono state pubblicate su varie riviste e lit-blog come Atelier, Inverso, Poesia del nostro tempo, Poetarum Silva, Taut editori etc, su La Repubblica nella Bottega della poesia.
Da ragazzina a Napoli mi guardavano le gambe ………….. il sole dei quartieri spagnoli i panni in strada bruciati dall’inverno. Poi il sangue di San Gennaro non si sciolse: presagio qualcuno che mi insidia
……………………………….. può esserci di peggio di questa casa senza dimora che ancora non esiste non tua forse il graffio dei tuoi occhi mare rapido di traverso i finestrini.
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Hai un modo strano di accarezzare, come si spazza a terra la cenere l’ultimo dell’anno ………….. si toglie il sale impolverato dalle ostriche. Sembra quasi che asciughi i giorni, da me, i mesi di un’altra visita lontana …………….. le mani nude entravano nella biancheria fin dove l’edera risale ………………………… il tempo all’origine.
*
Non conoscevo ancora i tuoi peli del petto …………. nudo sacro come una cappella in fondo al vicolo ti bacio fino alle ginocchia
a che pensi quando mi guardi puoi dirmi quello che vuoi è gratis a casa dicono sono come un uccellino mangio poco non disturbo canto sempre
sono fortunato ……………….. è il sei gennaio farai settanta chilometri per tornare io trenta in treno ho sperato che la porta si chiudesse con te dentro
…………….. non vivrò oltre i ventisette anni sii libero anche per me.
*
Continuerò ad aspettare. Tutto è quasi a metà. La domenica ha di nuovo il sole tra le gambe ……………… un fischio si interrompe alla stazione
…………………………………vicina posso essere vicina ……………………… a te anche da dove non si vede il mare senza le pietre del Miletto alla finestra: le case ………. che fioriscono sono sempre spente rischiarate con poco dal frigorifero che ronza di notte ……….. nient’altro.
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Chiederò al Signore di rinascere pianta di limone sul terrazzo di casa tua. Per parlare con te della vita e della morte della strada scavata dal tuo corpo della giovinezza che non ho mai avuto
…………………………. insegnami con le mani stavolta ……………………….. a non appassire.
Alessia Lombardi è nata il 20 maggio 1996 a Pontecorvo (FR) ma risiede a San Giovanni Incarico. Laureata in Filologia della Letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, ha iniziato a scrivere nel 2003. Nel 2014 è stata insignita del 41° premio «La Ciociara» per la Poesia, nel 2017 del 29° premio «Fratellanza nel Mondo». Nel 2016 è stata semifinalista al concorso «CET – Scuola per Autori di Mogol»; nel giugno 2020 è tra i cinque finalisti della prima edizione del concorso nazionale di poesia «Villa delle Ginestre». È critico musicale e live-reporter per il blog «Lo Zibaldone» ed il mensile on-line «Vita Ciociara», leopardista e cantautrice (sotto lo pseudonimo di Crow J).
china a soddisfare mariti e padroni, china costretta a tacere dolori. china prosciugata fino quasi a quella ultima goccia, che traboccando scatenò la prima parola di riscatto.
e così quelle ginocchia, che mai divennero piedi, smisero di toccare il terreno.
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il terzo burattino* c’erano una volta tre burattini: uno di essi ritraeva una mamma, un altro un patrigno, oscuri i suoi fini, e il terzo una bimba, vivida fiamma. sono ancora tra noi quei pupazzini? sì, però il terzo, vittima di un dramma, è pressoché del tutto consumato: per anni gli altri due ne hanno abusato.
* Ispirato a fatti di cronaca
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Lola
un figliolo che si sentiva figliola, vïolino in un corpo di vïola, se ne andò dal Brasile in terra spagnola per rinascere col nome di Lola.
e se oggi qualcuno la chiama “boiola°”, lei non dà più peso a quella parola.
° In Brasile termine volgare per definire un maschio omosessuale
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1° maggio 2020 oggi le campane suonano a morto – trovan pace la salme in traslazione? – e in un ciclo aberrato delle stelle
non c’è tregua al salpar di caravelle che sanno ignota la destinazione. noi preghïamo prossimo sia un porto.
Luca Gilioli (1984) consegue la laurea in Scienze della Cultura presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Dall’età di sedici anni scrive poesie, con le quali riceve numerosi riconoscimenti in concorsi letterari nazionali. I suoi testi sono presenti oggi su quotidiani, su prestigiose antologie e riviste di settore e su rinomati poetry-blog tra i quali Poesia del Nostro Tempo, Pioggia Obliqua, Poesia Ultracontemporanea, L’Altrove, Limina Mundi, Carteggi Letterari, Il Sasso nello Stagno, Poetarum Silva, Larosainpiù, Limes Lettere, Leggere Poesia, Transiti Poetici, Poetry Factory e Poetrydream. Le sue raccolte poetiche s’intitolano Orionidi (Bernini Editore, 2011), Dodici (Edizioni Il Fiorino, 2012) e Di mossa in mossa (Edizioni Il Fiorino, 2020). In seguito al terremoto che ha colpito il territorio della ‘Bassa modenese’ nel 2012, Gilioli ha curato assieme alla scrittrice Roberta De Tomi l’antologia poetica solidale La luce oltre le crepe (Bernini Editore, 2012). Parallelamente alla collaborazione con varie riviste letterarie, svolge l’attività di correttore di bozze.