ArtCityBologna2023 – Speed Guide by Spine Produzione

Il weekend è il momento perfetto per esplorare le numerose attività di Art City, l’art week bolognese in occasione di Arte Fiera, dal 27 gennaio al 5 febbraio 2023. E noi di spine vogliamo consigliarvi il percorso migliore secondo noi per chi ha voglia di fare una maratona d’arte e destreggiarsi nel fittissimo programma dell’edizione di quest’anno.

Qui vi proponiamo un percorso ragionato, per visitare le mostre centrali del main program accompagnate dalle proposte dei numerosi musei, fondazioni, gallerie e spazi indipendenti della città.

Cartina alla mano, e via esploratori!

Come saprete, il tempo è denaro, per questo motivo il percorso che proponiamo è pensato per cogliere quanti più luoghi d’arte il vostro corpo sarà capace di visitare, all’esploratore è lasciata la scelta di seguirlo nel tempo di un week end all’insegna dell’arte o meno (dipende da quanto è lungo il vostro week end!).

I numeri sulla mappa non sono casuali! Sono esattamente gli stessi riportati sulla mappa ufficiale di Art City Bologna 2023, indispensabile per gli esploratori. Il percorso parte dal Cassero LGBTI+ Center e finisce al Laboratorio degli Angeli dalla parte opposta della città, ma volendo si può invertire il senso di marcia.

Qui la lista completa dell’itinerario con luoghi e mostre in corso:

  • Cassero LGBTI+ Center, via Don Minzoni 18 – Natalie Djurberg. Putting down the prey (dal 2 febbraio)
  • MAMbo, via Don Minzoni 14 – Yuri Ancarani. Atlantide 2017-2023 (dall’1 febbraio)
  • Parsec, via del Porto 48/CD – Christine Bax e Camilla Carroli. Untangle the Jungle (dal 27 gennaio)
  • Gallleriapiù, via del Porto a/B – Emilio Vavarella. Re:Presentation (dal 27 gennaio)
  • Studio Ferrari, via Padre Francesco Maria Grimaldi 3/A – ASAP + Studio Ferrari. Scarcity (dal 27 gennaio)
  • P420, via Azzo Gardino 9 – June Crespo. Acts of Pulse (dal 2 febbraio)
  • Oratorio di San Filippo Neri, via Manzoni 5 – Lucy + Jorge Orta. Seeking blue gold (dal 2 febbraio)
  • Fondazione del Monte, via delle Donzelle 2 – Pinuccia Bernardoni. Una felice corsa (dal 27 gennaio)

Da qui dovrete fare una scelta: il dono dell’ubiquità non ce l’abbiamo ancora… e poi che gusto c’è se vi diciamo tutto noi? Prendete il percorso che vi ispira di più e lasciate il resto a un’altra volta… essere pragmatici fa risparmiare tempo, ma per certe cose vale la pena perderlo.

Per il percorso di destra:

  • Adiacenze, vicolo Spirito Santo 1/b – Carolina Cappelli. P.E.D.R.O. (dal 3 febbraio)
  • Galleria d’Arte Maggiore G.A.M., via D’Azeglio 15 – Sissi. Trasguardi (dal 27 gennaio)
  • Galleria Studio G7, via Val’ D’Aposa 4/A – Anne e Patrick Poirier. Apoptosi (dal 27 gennaio)
  • Galleria Paradisoterrestre, via De’ Musei 4 – Augusto Betti, Alberto Biasi, Calori & Maillard, Angel Duare, Novello Finotti, Pierre Gonalons, Allen Jones, Edoardo Landi, Roberto Matta, Andy Picci, Paola Pivi, Tobia Scarpa, Kazuhide Takahama. Limited (dal 27 gennaio)

Per il percorso di sinistra:

  • Palazzo Bentivoglio, via del Borgo di San Pietro 1 – Patrick Procktor. A view from a window (dal 1 febbraio)
  • Pinacoteca Nazionale di Bologna, via delle Belle Arti 56 – Salone degli Incamminati, Giovanni Blanco, Jacopo Casadei, Rudy Cremonini, Domenico Grenci, Enrico Minguzzi, Nicola Samorì. Ex5 (dal 4 febbraio)
  • Museo della Specola, via Zamboni 33 – Cuoghi Corsello. Mostri. Noi, gli altri, sé stesso (dal 2 febbraio)

Il percorso fa ricongiungere gli animi per la mostra al Labs Contemporary Art, e magari ci scappa anche un aperitivo nel mezzo!

  • Labs Contemporary Art, via Santo Stefano 38 – Greta Schödl. Il segno traccia del nostro vissuto (dal 27 gennaio)
  • Alchemilla, via Santo Stefano 43 – Roberto Fassone + Ai Lai + LZ. And we thought III (dal 28 gennaio)
  • Laboratorio degli Angeli, via degli Angeli 32 – Eva Marisaldi. Guarda Caso (dal 30 gennaio)

Se siete arrivati fino a qui, beh complimenti!

Per gli animi ancora affamati segnaliamo alcune mostre che resteranno aperte anche dopo il 4 febbraio come quelle alla Fondazione Lercaro con opere di Renato Guttuso, Gianfranco Ferroni, Ennio Morlotti e Franco Francese, la Fondazione Mast con Mast Photography grant on industry and work/2023 e il Museo per la Memoria di Ustica con Christian Boltanski.

Per chi ama il cinema la Cineteca di Bologna organizza la rassegna Art City Cinema e eventi al DamsLab in Piazzetta Pier Paolo Pasolini; mentre chi visiterà Arte Fiera non può perdersi la mostra di Jonas Mekas al Padiglione de l’Esprit Nouveau.

Tra gli eventi “off program” segnaliamo le iniziative SSSTAY! una collettiva di performance, e Hard City Bologna e Corneraholic degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, trovate tutte le informazioni cercandoli su instagram!

Ora, cosa aspettate?! Infilate le vostre scarpe più comode e preparatevi per scoprire la città come solo in questo periodo si può fare!

Buona esplorazione!

Michele Donati – «Il paesaggio nuovo»

nel mare di grano
uomini subtropicali
vanno come fantasmi
le buste di plastica in mano

la valle è una gola vasta
percorsa dall’elettricità
non può che parlare
……………………………….. infinite lingue



*



la rosa di gesso parla
pochi sono in grado di capirla

un esempio la formazione
del linguaggio

questa rosa è stata argilla
ora è una rosa
è una rosa
…………………. per così dire
che era argilla
……………………… domani cosa
sarà la rosa?



*



VIII

i lampioni si chinano sui corpi
assiderati dei santi
li accolgono nel paradiso
sostenibile
……………….. fotovoltaico

un muro mi domanda
…………………………………… e questa
è vita?
le facciate degli edifici
hanno tutte una bestemmia
……………………………………………… un grido

di rivolta o amore
……………………………. e sigle
su sigle
…………… scritte in colori acidi
per la notte sovraesposta
che attraversiamo senza volto
scritte per riconoscerci
nella lontananza degli anni

la luce langue
………………………. il neon
accende
……………. spegne
………………………….. accende
i profili incisi sui marciapiedi
dà loro il bacio gelido
dell’alba
……………… si spegne


Michele Donati (Faenza, 1994) si è laureato in Italianistica all’Università di Bologna con una tesi in Poesia italiana del ‘900 su Clemente Rebora e la musica: un estratto è stato pubblicato su Smerilliana (n.23, 2020) con il titolo Per un Rebora mal noto. Indagine su Rebora e il melodramma. Scrive sul quotidiano Corriere Romagna, è vicepresidente dell’associazione IndependetPoetry, con cui cura appuntamenti e letture poetico-musicali (Melusina di Antonio Porta, L’ospite che non giunse di Nella Nobili, La libellula di Amelia Rosselli nello spazio espositivo Officina Matteucci, Faenza, 2018-19). È autore e regista di spettacoli teatrali: Mazapégul, Museo Carlo Zauli (Faenza), Festival Tres Dotes (Tredozio), 2018; Canone a specchio, Fringe Festival (Edimburgo), Teatro del Navile (Bologna), 2019. Alcuni suoi inediti sono inseriti nell’Antologia Distanze Obliterate (Puntoacapo, 2021) curata da Alma Poesia. 

Rossella Renzi – «Disadorna»

Tu che lo sai, dimmi cos’è
essere luce in questo lamento
che arriva da lontano.

Essere luce nel fragore
nel desiderio, nella speranza
quando la vita si schianta.

Dimmi il peccato nella mano tesa,
nella lingua del corpo che si fa canto.


*


Per Camille Claudel


I

C’è un punto nel sul collo
tra cuore e clavicola
dove si raccolgono le lacrime.

Nel solco appena accennato ristagna,
fa male. Se scavi in quel punto, Camille
comprendi una figura di madre
il suo corpo, gli occhi più grandi
il dolore non detto
le mani incrociate sulle ginocchia.



*



La falena tigre
ha gli occhi della notte
figura fragile venuta in sogno
vestale della consolazione.
Muta sulla parete della stanza
lei è testimone degli amanti
la semina, il canto,
l’incendio delle ali.



*



Se tocchi la sottile membrana
che mi avvolge io sono ancora bozzolo
bozzolo che esplode sono farfalla
ali che impazzano sulla schiena.

Rossella Renzi, insegnante, scrittrice, poetessa, ha pubblicato in versi I giorni dell’acqua (L’arcolaio 2009), Il seme del giorno (L’arcolaio 2015), Dare il nome alle cose (Minerva 2018), Disadorna (peQuod 2022); il saggio Dire fare sbocciare. Laboratori di poesia a scuola (E-book per Pordenonelegge 2018). È redattrice di «Argo» e di «Poesia del nostro tempo». Per la casa editrice Argolibri dirige la collana “Territori” per cui ha curato il volume Argo 2020 L’Europa dei poeti. Ha curato, insieme ad altri critici, L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie e numerosi Annuari di poesia. Conduce “Novissime, podcast mensile di poesia e letteratura” insieme a Lello Voce.
Con musicisti e artisti di vario tipo realizza progetti che indagano il rapporto tra la poesia e le diverse forme espressive. Con l’Associazione Independent Poetry organizza eventi letterari. Si è laureata nel 2003 all’Alma Mater di Bologna col Professor Alberto Bertoni, con una tesi su Eugenio Montale e la poesia del secondo Novecento.

Isabella Errani – «In terra di Ananke»

Ananke

Sei arrivato
silenzio
ma in fondo ci sei sempre stato.
Ti ho imparato così
al buio
dentro al pieno
dentro al vuoto
in un’alba di gelo
non ancora nata.

Sotto l’orizzonte
ad attendermi
il tenace e severo abbraccio
di un tempo aspro
dalla luna opposta
in terra di Ananke.

Iniziata
sui muri
delle tue stazioni
l’itinerario del viaggio
l’ho imparato così
al buio
con l’occhio bambino
spalancato sopra l’orizzonte.

E sì su qualche muro
ho sbattuto le finestre al pianto
recitando la paura
pedaggio equo
alla felicità
che copre il dolore.



*



Viaggio

Regna l’assenza
come in una lunga notte artica
quando il sole non sorge per settimane.

Regna l’assenza del calore di ogni vincolo
la transumanza del mio cuore ricomincia
mentre un vento gelido passeggia senza identità sul vuoto.

L’assenza profuma di dolore il mio sentiero
mentre tramortisce e divora
ogni già ebbra traccia.

Camaleontici sgabuzzini
come sacri sudari
mi offrono scollacciate memorie.

Perché mi fissate polifemiche
da dentro la ciotola del dispetto
legate ancora a bui rinneghi?

I. Errani, In terra di Ananke, Dialoghi Edizioni

Guardo oltre il fuoco del mio respiro
mentre appesa alla porta del futuro
il tintinnìo della resa mi sveglia lo sguardo.

E l’assenza come in un’alba boreale
già non mi pare più così gelida.


*

Oltre quel muro

Ho scelto di incappucciare il mio già scheggiato cuore
di mangiare brindare piangere ridere danzare
con la tua maschera dai veri spartiti nascosti
accanto alla siepe di un sogno

per attraversare un tempo con te.

Ho scelto l’affanno trascinando le linee del mio volto interiore
a scomporsi bisbigliando azzardi amorosi con le tue contraffatte carte
dalle riconversioni impossibili
battezzate ogni volta da bari caffè

quasi avessi atteso a lungo un tempo con te.

Ho scelto d’incollare la pioggia acida
di profetiche parole
su occhiali rosa tatuati d’improbabili ti amo
insieme all’ultimo coagulo di dignità
acciambellata come un gatto sulle finestre dei tuoi palazzi
arabescati già di rancorose ragnatele.

Ho scelto come una lupa violata ogni notte per tante notti
di leccare sulla tua pelle le mie livide strappate vele
dall’ultima pioggia dell’ultimo tuono
e di saltare al di la della strada oltre quel muro
abbracciata ai miei rossetti ai miei tacchi a spillo al Male
solo all’alba del dopo Natale

quasi fosse meno forte il dolore che schiaccia la schiena al cuore.

Ho scelto di non scegliere gli amici dai lindi armadi
dai rossi larghi sorrisi dai generosi abbracci
dall’improvviso inedito rigore
nelle ore più torbide del disonore.

Ho scelto di abbandonare il buio degli occhi umidi della colpa
e sola ho preso per mano la paura
dalla pancia alla piazza
lungo i corridoi di un tribunale giusto
ho annusato il fruscio del Male
dal ghigno passepartout
dall’occhio secco
dal profilo di lama.

Ho scelto l’oltre quel muro
quasi fosse il tempo di riprendermi le mie vele.

Isabella Errani è nata a Lugo di Romagna (RA) nel 1958 e abita a Bagnacavallo.
È stata educatrice di asilo nido e bibliotecaria alla Biblioteca “F. Trisi” di Lugo.
Ha partecipato a vari premi letterari nazionali e internazionali di poesia, ricevendo premi, riconoscimenti e menzioni d’onore.

Art Advisor – Progetto Alluminio


C’è una nuova realtà che sta popolando i venerdì pomeriggio bolognesi, tra arte, musica e installazioni immersive, Progetto Alluminio è la proposta artistica dell’appartamento di via San Felice che offre un nuovo spazio di sperimentazione alla città.

In questo Art Advisor abbiamo intervistato i ragazzi di Progetto Alluminio.


Progetto Alluminio ha ospitato una serie di eventi multidisciplinari tra marzo e aprile 2022. Chi siete e come nasce il progetto?


Progetto Alluminio nasce da un’idea di Riccardo Tesorini e Gaia Nieri, coinquilini dell’appartamento in via San Felice che ha ospitato il progetto. Entrambi attivi nell’ambito artistico, Gaia e Riccardo hanno deciso di rendere la propria casa un luogo espositivo e di partecipazione collettiva. Questo è stato possibile anche grazie al contributo di altre figure come Federica Amaddii Barbagli, Camilla Medori, Chiara Ferri, Giulio Grillo ed altri. Ed ovviamente agli artisti che hanno deciso di partecipare: Riccardo Tesorini, Valentina Cima, Lorenzo Fasi, Biagio Cavallo, Daniele Carcassi e i dj Vicky e Dengue Dave.


Lo spazio espositivo è ricoperto di alluminio, una sala che non vuole essere neutra e si oppone al white cube istituzionalmente inteso, che pensiero c’è dietro questa scelta?


Proprio così!
L’idea di rivestire la sala di alluminio è nata quasi per gioco… l’alluminio ci ha permesso di immergerci in qualcosa di extra-ordinario stimolando in noi la possibilità di sovvertire uno spazio intimo e privato, spogliato della sua funzione abituale.
Nel pensare questo spazio come base del progetto abbiamo trovato interessante l’idea che l’alluminio fosse a tutti gli effetti un soggetto agente: gli artisti si sono confrontati con questo elemento ricorrente, muovendosi all’interno di un ambiente fortemente caratterizzato che ha suggerito loro un atteggiamento site-specific.


Progetto Alluminio è diventato in poco tempo uno spazio di aggregazione e di scambio da vicino per chi lo ha visitato, questa era una necessità che a Bologna ha sempre trovato spazio, e ora che le restrizioni si stanno allentando sta riemergendo, è stato un bisogno anche per voi o è un effetto collaterale del progetto?


Progetto Alluminio nasce nel pieno della pandemia. La nostra è stata una reazione alla paura e alla diffidenza, in un momento difficile, in un’epoca storica costellata di crepe e vuoti. Una sorta di anticorpo in cui abbiamo sviluppato un discorso con al centro una proposta artistica sfaccettata e senza confini di alcun genere.


Le vostre proposte artistiche sono molto varie, abbiamo visto pittura, installazioni, video, musica, come scegliete gli artisti e i lavori da ospitare? Seguite una filosofia o una scelta poetica precisa?


L’unica vera poetica è ascoltare lo spazio: vogliamo che la proposta artistica sia in sintonia con esso. Lo spazio ha scelto per noi: proprio la forte caratterizzazione della sala, data dall’alluminio, ha richiesto all’artista di pensare, o ripensare, l’opera propriamente per quel luogo.


Ora vi siete un po’ fermati, ma forse c’è qualcosa ancora che bolle in pentola, che progetti avete per il futuro? Continuerete ad aprire la sala alluminio di via San Felice o il progetto evolverà?


A dire il vero non ci siamo mai fermati! Ci siamo dati del tempo per preparare l’evento che ha concluso questo primo ciclo di Progetto Alluminio. Si tratta della soundwalk del 3/7/22 terminata con un gesto per formativo di disallestimento collettivo (e a sorpresa dei partecipanti) della sala dell’alluminio.
Abbiamo diversi progetti futuri ma per il momento preferiamo non anticipare nulla. La nostra intenzione è rendere Progetto Alluminio fluido e nomade: non vogliamo ancorarci al luogo in cui è nato ma espanderci e accogliere nuove proposte artistiche mantenendo la nostra identità.

Art Advisor – Progetto Alluminio


C’è una nuova realtà che sta popolando i venerdì pomeriggio bolognesi, tra arte, musica e installazioni immersive, Progetto Alluminio è la proposta artistica dell’appartamento di via San Felice che offre un nuovo spazio di sperimentazione alla città.

In questo Art Advisor abbiamo intervistato i ragazzi di Progetto Alluminio.


Progetto Alluminio ha ospitato una serie di eventi multidisciplinari tra marzo e aprile 2022. Chi siete e come nasce il progetto?


Progetto Alluminio nasce da un’idea di Riccardo Tesorini e Gaia Nieri, coinquilini dell’appartamento in via San Felice che ha ospitato il progetto. Entrambi attivi nell’ambito artistico, Gaia e Riccardo hanno deciso di rendere la propria casa un luogo espositivo e di partecipazione collettiva. Questo è stato possibile anche grazie al contributo di altre figure come Federica Amaddii Barbagli, Camilla Medori, Chiara Ferri, Giulio Grillo ed altri. Ed ovviamente agli artisti che hanno deciso di partecipare: Riccardo Tesorini, Valentina Cima, Lorenzo Fasi, Biagio Cavallo, Daniele Carcassi e i dj Vicky e Dengue Dave.


Lo spazio espositivo è ricoperto di alluminio, una sala che non vuole essere neutra e si oppone al white cube istituzionalmente inteso, che pensiero c’è dietro questa scelta?


Proprio così!
L’idea di rivestire la sala di alluminio è nata quasi per gioco… l’alluminio ci ha permesso di immergerci in qualcosa di extra-ordinario stimolando in noi la possibilità di sovvertire uno spazio intimo e privato, spogliato della sua funzione abituale.
Nel pensare questo spazio come base del progetto abbiamo trovato interessante l’idea che l’alluminio fosse a tutti gli effetti un soggetto agente: gli artisti si sono confrontati con questo elemento ricorrente, muovendosi all’interno di un ambiente fortemente caratterizzato che ha suggerito loro un atteggiamento site-specific.


Progetto Alluminio è diventato in poco tempo uno spazio di aggregazione e di scambio da vicino per chi lo ha visitato, questa era una necessità che a Bologna ha sempre trovato spazio, e ora che le restrizioni si stanno allentando sta riemergendo, è stato un bisogno anche per voi o è un effetto collaterale del progetto?


Progetto Alluminio nasce nel pieno della pandemia. La nostra è stata una reazione alla paura e alla diffidenza, in un momento difficile, in un’epoca storica costellata di crepe e vuoti. Una sorta di anticorpo in cui abbiamo sviluppato un discorso con al centro una proposta artistica sfaccettata e senza confini di alcun genere.


Le vostre proposte artistiche sono molto varie, abbiamo visto pittura, installazioni, video, musica, come scegliete gli artisti e i lavori da ospitare? Seguite una filosofia o una scelta poetica precisa?


L’unica vera poetica è ascoltare lo spazio: vogliamo che la proposta artistica sia in sintonia con esso. Lo spazio ha scelto per noi: proprio la forte caratterizzazione della sala, data dall’alluminio, ha richiesto all’artista di pensare, o ripensare, l’opera propriamente per quel luogo.


Ora vi siete un po’ fermati, ma forse c’è qualcosa ancora che bolle in pentola, che progetti avete per il futuro? Continuerete ad aprire la sala alluminio di via San Felice o il progetto evolverà?


A dire il vero non ci siamo mai fermati! Ci siamo dati del tempo per preparare l’evento che ha concluso questo primo ciclo di Progetto Alluminio. Si tratta della soundwalk del 3/7/22 terminata con un gesto per formativo di disallestimento collettivo (e a sorpresa dei partecipanti) della sala dell’alluminio.
Abbiamo diversi progetti futuri ma per il momento preferiamo non anticipare nulla. La nostra intenzione è rendere Progetto Alluminio fluido e nomade: non vogliamo ancorarci al luogo in cui è nato ma espanderci e accogliere nuove proposte artistiche mantenendo la nostra identità.

Zoom 2.3 – Intervista a Victoria DeBlassie

Zoom 2.3 – Intervista a Victoria DeBlassie

Per chi ha seguito le nostre ultime rubriche sarà stato impossibile non notare che nelle ultime
settimane di Maggio abbiamo avuto modo di curiosare in modo sospetto tra le mura di Latte
Project Space
! (Clicca qui per leggere l’ultimo articolo di Art Advisor!)

Tra un’opera e l’altra siamo dunque capitati durante l’allestimento dell’ultimo progetto espositivo della galleria andato in scena nel weekend tra il 27 e il 29 Maggio a Faenza. Ad esporre nel contesto faentino è stata Victoria DeBlassie, artista statunitense con doppia cittadinanza italiana, che da anni vive e conduce la sua ricerca artistica in Italia.

Abbiamo quindi deciso di fare irruzione ed interrompere l’allestimento per non farci scappare
l’occasione di scambiare due parole con un’artista incredibile come Victoria! Nelle breve intervista
che abbiamo realizzato abbiamo parlato di agrumi, sostenibilità e materiali di recupero.
Buona Lettura!

D: La tua storia è molto particolare e questo è uno di quei casi in cui è corretto dire che
comincia realmente lontano da qua. Ti va di raccontarci come ti sei avvicinata al mondo
dell’arte e come mai la scelta di rendere protagonisti gli agrumi nel tuo lavoro?


R: Vengo da Albuquerque – New Mexico – tra Texas e Arizona. Quando avevo 15 anni sapevo già
di voler fare l’artista, perché vengo da una famiglia dove l’arte è sempre stata presente. Quindi il
mio non è un percorso nato per caso!
Comunque, in adolescenza la mia mansione in casa era quella di fare la spremuta d’arancia per il
brunch della domenica. Così come in Italia c’è l’usanza del pranzo della domenica, noi (negli Stati
Uniti) abbiamo il brunch, che altro non è che un’unione tra una colazione in ritardo e un pranzo in
anticipo. Quindi, dopo tutte quelle spremute, pensavo fosse uno spreco buttare via le bucce
d’arancia e quindi ho iniziato a raccoglierle, conservarle e lasciarle asciugare al sole.
Da lì ho cominciato a trarre ispirazione e a iniziare ad utilizzare i materiali di scarto all’interno del
mio lavoro.

Fin dall’adolescenza ho sempre avuto in mente di poter sviluppare la mia tecnica tramite il
processo di conceria utilizzato sulle bucce degli agrumi. Dopo essermi laureata, prima presso l’università del New Mexico, poi presso il California College of the Arts, ho approfondito la mia ricerca sugli agrumi e, grazie anche alle mie origini Lucane, ho avuto modo di poter studiare per un po’ in Italia durante il mio master e mi sono subito innamorata. Ho capito immediatamente di voler tornare e ho fatto domanda per un progetto all’estero, sempre in Italia.
Durante il mio percorso di studi, personali e accademici, ho avuto modo di approfondire
tantissimo il tema degli agrumi. Per esempio ho letto questo libro che si chiama “Oranges”- di
John Mcphee – che parla dell’utilizzo delle arance nella storia. Mi ha colpito molto una parte
riguardante la storia italiana, con particolare attenzione al periodo rinascimentale. Pensa che in
quell’epoca storica le arance avevano valore paragonabile all’oro, erano prestigiose, rare e
soltanto le persone ricche potevano permettersele. Si dice persino che nello stemma dei medici le
sfere presenti simboleggino in realtà arance.

D: Dunque la scelta di utilizzare materiali di recupero è sempre stata presente all’interno
della poetica del tuo lavoro creativo. Come pensi sia cambiato ed evoluto nel tempo il tuo rapporto con i materiali che utilizzi?


R: La mia ricerca – appunto – è cominciata quando avevo 15 anni. Mi sembrava uno spreco dover
buttare le bucce di arancia che avanzavano per la spremuta. Questo è stato il mio spunto
principale per iniziare la mia ricerca.
Tutti gli oggetti che abbiamo intorno nella nostra vita hanno una storia che dobbiamo scoprire e
valorizzare. Questo concetto per me è fondamentale. Scegliere di utilizzare i materiali di scarto
non è solamente una scelta ecologica – anche – è soprattutto un’opportunità per riflettere su ciò
che ci circonda e capire cosa ha da raccontarci della nostra vita e della nostra storia. É importante
fermarsi a riflettere su queste cose, ci fanno capire i valori e cosa possiamo migliorare per il
futuro. Per la mia opera è molto importante l’idea di “chance”. Quando cammino per strada, vedo
un oggetto che qualcuno sta buttando via capita che io lo usi come spunto per la mia ricerca
artistica.
Con le bucce degli agrumi invece è una cosa che ho sempre fatto e che continuo a fare. É un
lavoro che richiede tempo e precisione. Ovviamente queste tecniche sono tutte nuove per me,
non so le opere che fine faranno tra alcuni anni, se moriranno o no. Per esempio ho imparato che
se metto un materiale specifico sulle bucce quando sono in essiccazione poi il colore rimane vivo,
se invece non la metto si ossida e diventa più scura.
Questo per farti capire che è un’opera viva, come un’essere umano, che cambia nel tempo e ci fa
ricordare anche il nostro corpo.

D: Nel tuo lavoro sono presenti diverse tecniche che immagino sia necessario saper
padroneggiare alla perfezione per riuscire ad ottenere un risultato preciso ed impattante come il tuo. Quali sono gli step che devi seguire dalla nascita all’esposizione di un’opera?


R: Con la mia opera diciamo che ci vuole sempre tempo per capire che fine farà. Per esempio i
lavori che facevo da piccola sono ancora a casa dei miei e stanno ancora bene, anche se ho
usato tutt’altro processo per crearli. Io sono interessata a spingere i materiali al massimo del loro
potenziale. Negli Stati Uniti usavo una colla specifica per i lavori d’archivio, che aiutata al clima
secco, mi aiutava al mantenimento delle bucce. In Italia uso invece il processo di conceria, ho
collaborato con il Polo Tecnologico Conciario (PO.TE.CO) a Castelfranco di Sotto. Era una cosa incredibile
collaborare con loro perché abbiamo fatto tantissime verifiche per capire cosa funzionasse e cosa
no. Abbiamo dovuto usare i prodotti chimici – che non fanno male all’ambiente – e altri invece che
si usano in ambito medico, il tutto mescolato insieme ad altri prodotti, per creare un processo che
però non posso rivelare perché è un segreto!
La conservazione delle bucce invece dipende da tanti fattori. Per esempio quando conservo le
bucce in casa mia ho imparato che devo sempre metterle tra qualche foglio di Scottex perché se
no prendono troppa umidità.

D: Quale progetto hai deciso di portare e proporre nello spazio di Latte Project Space?


R: Il progetto a cui sto lavorando per Francesca fa parte di una serie di “cascate”. Ho preso
ispirazione dai giardini rinascimentali e la presenza degli agrumi in essi.
Ho deciso di usare la cascata perché richiama alcuni elementi dei giardini rinascimentali: le
fontane, grotte e ruscelli. Un modo per legare il passato al presente.
In questa opera nello specifico ho fatto anche uso di altre tecniche. Ho aggiunto la tintura rossa,che aveva un valore alto nel rinascimento, per creare queste strisce di diverse lunghezze.

Con questa mostra volevo creare questo rapporto con il passato, presente e crescita, in modo da
farci riflette anche sulla sostenibilità. Quando pensiamo ai nostri valori culturali dobbiamo sempre
chiederci da dove vengano, questo anche per riflettere sul futuro, perché se non pensiamo di
utilizzare i materiali in un altro modo, possiamo trovare la chiave per avere un futuro più
sostenibile.


D: Utilizzando principalmente materiali organici nel tuo lavoro è probabile che, nel corso del tempo, possano subire dei cambiamenti per esempio: le dimensioni, la composizione e il colore. In questo caso avremo davanti un’opera diversa rispetto alla precedente. Come valuti questo cambiamento nell’opera? Racconterà una storia diversa o racconterà sempre la stessa storia ma con più esperienza?


R: Questa è una bella domanda. Secondo me racconterà la stessa storia ma con più esperienza
perché sarà più potente. Mi prendo un grande rischio per fare questo lavoro, ma perché c’è un
valore nell’assumersi i rischi, perciò mi interessa. Ci sarà più esperienza che potrà arricchire
l’esperienza stessa dell’opera e la sua storia. A livello storico e personale.

D: Chiudiamo l’intervista con la prima domanda che, spontaneamente, mi è sorta quando
ho visto il tuo lavoro per la prima volta. Ma come ci si procura così tante bucce d’arancia?
Ma soprattutto c’è un modo specifico per tagliarle correttamente?

R: Solitamente mi chiedono se abbia mangiato io tutte quelle arance!
Allora diciamo che io vado da diversi bar che mi lasciano gentilmente le bucce in avanzo per le
spremute. Le arance devono essere tagliate a metà se no poi è troppo difficile trattarle, poi
bisogna pulire dalla parte bianca interne. Un lavoro molto scrupoloso in cui sono molto brava! Ci
vuole pazienza. Molti amici vogliono aiutarmi ma non ce la fanno perché ci vuole precisione e sensibilità manuale.

Latte Project Space – Il dizionario della pelle

Nelle settimane tra il 14 e il 25 maggio è andata in scena a Faenza la mostra “Il dizionario della pelle”. Un progetto inaugurato inizialmente presso la Galleria Comunale della Molinella, poi proseguito nello spazio espositivo di Latte Project Space. Curato integralmente da Francesca Cerfeda.

Sabato 21 maggio siamo stati ospiti di Francesca che, dopo la mostra inaugurale di settembre 2021 “Che la festa cominci”, ci ha nuovamente invitati per dare un’occhiata al suo nuovo progetto. 


Latte Project strikes again

Nelle settimane tra il 14 e il 25 maggio è andata in scena a Faenza la mostra “Il dizionario della pelle”. Un progetto inaugurato inizialmente presso la Galleria Comunale della Molinella, poi proseguito nello spazio espositivo di Latte Project Space. Curato integralmente da Francesca Cerfeda.

Sabato 21 maggio siamo stati ospiti di Francesca che, dopo la mostra inaugurale di settembre 2021 “Che la festa cominci”, ci ha nuovamente invitati per dare un’occhiata al suo nuovo progetto. 

La mostra si presenta come una grande collettiva, che mette in relazione tanti artisti, ognuno con background artistico-culturale di notevole spessore.

Quando si affrontano progetti di questo tipo il rischio è sempre quello di trovarsi davanti una serie di lavori impattati e molto forti, capaci però di raccontare “solamente” la loro storia e di non offrire il proprio ascolto a quella degli altri. Non è questo il caso. Francesca è stata bravissima nella selezione dei singoli artisti, una selezione attenta, silenziosa e non invadente, capace di mettere in dialogo opere di stili diametralmente opposti tra loro come se fossero nate per essere esposte l’una a fianco all’altra.
Il filo conduttore che lega ogni lavoro di questo percorso è appunto la “pelle”, una matrice fisica, materna, capace di creare un bellissimo viaggio dove ogni artista accompagna personalmente il visitatore all’opera successiva raccontando un pezzettino del proprio vissuto. Il dizionario della pelle è stata dunque una mostra sensibile, capace di comunicare senza troppe parole, che guida con gli occhi e con le mani nei solchi che il tempo imprime nella pelle, unica e uguale, di ciascuno di noi.

Nella bella chiacchierata che abbiamo fatto con Francesca la cosa che più mi ha colpito è stata che questo progetto risale a una sua personale suggestione di ormai cinque anni fa. Mi ha affascinato molto la pazienza, la costanza e la dedizione con cui lentamente la mostra ha preso forma nel tempo costruendo, artista dopo artista, opera dopo opera, gli strati di pelle che hanno formato il risultato finale esposto. 

Ringraziamo quindi Francesca per essere stata ancora una perfetta padrona di casa e non vediamo l’ora di tornare a vedere che cosa Latte Project Space avrà in serbo per questi prossimi mesi.

Hanno esposto le artiste Giulia Lanza, Caterina Morigi, Giulia Poppi & Arianna Zama.
Mentre L’opening è stato  introdotto dalla performance “Awkward Integrities” dell’Artista Andisheh Bagherzadeh – alla Galleria Comunale della Molinella. 

– Alessandro Assirelli

Michele Ghiotti – Bocche che non sanno stare chiuse #3

LA POESIA CONTEMPORANEA ROMAGNOLA:
RABDOMANZIA DEL PERTURBANTE

Nicoletta Ceccoli, Harpya, 2007

Oltre alla “Romagna solatia”, c’è una Romagna lunare, selenitica, lupesca. Capace di sabba e cacce morte, di danze macabre e parodie sacre. Una Romagna gotica e ancor prima gota (nordica, di Berserkir), il cui lato infero e luciferino è addolcito e compenetrato dalla vocazione ludica, bambina dell’impulso. Non solo, quindi, la capacità del fanciullino pascoliano di meravigliarsi con vergine gioia e dare i nomi alle cose, ma anche la virtù, sempre infantile, di inquietarsi di fronte al mistero con primitivo terrore, inghiottendo le proprie parole. Genuino stupore di fronte al perturbante.

Volendo fare un po’ di archeologia si potrebbe fare un balzo indietro al Settecento, con il riminese Aurelio Bertola de Giorgi, anima raminga che fa la spola fra monasteri, caserme e accademie: è lui che rinnova la poesia arcadica, imitando i versi notturni e cimiteriali di Edward Young; anche Metastasio ne elogia le Notti, che oscillando fra la contemplazione del pittoresco e la meditazione malinconica aprono nella penisola un varco verso il romanticismo. Nell’Ottocento è il turno di un altro campione di indisciplina, il forlivese Olindo Guerrini, che nel 1877 dà alle stampe (sarà la prima di 32 fortunate edizioni, con vendite superiori a quelle di Carducci) i Postuma, firmati come Lorenzo Stecchetti, sedicente cugino morto di tisi. Un libro scapigliato fino all’oltranzismo, in cui, per farsi pietra di scandalo, il poeta saccheggia Baudelaire, Hoffman e tutto il repertorio dell’orrido per innalzare un misogino Canto dell’odio che rivaleggia in crudeltà e maledettismo con Lautréamont:

Quando tu dormirai dimenticata
sotto la terra grassa
e la croce di Dio sarà piantata
ritta sulla tua cassa
quando ti coleran marcie le gote
entro i denti malfermi
e nelle occhiaie tue fetenti e vuote
brulicheranno i vermi,
per te quel sonno che per altri è pace
sarà strazio novello
e un rimorso verrà freddo, tenace,
a morderti il cervello.

(da Il canto dell’odio).

Seguono la linea nera di Guerrini i giovanissimi Matteo Zattoni, Filippo Amadei e Clèry Celeste. Tutti forlivesi, tutti a loro modo efferati. Matteo Zattoni, nato nel 1980 a Forlimpopoli, ha all’attivo quattro raccolte – Il nemico (Il Ponte Vecchio, 2003), Il peso degli spazi (LietoColle 2005), L’estraneo bilanciato (Stampa, 2009) e la recente I figli che non tornano (Italic Pequod, 2021) – e numerose collaborazioni con associazioni culturali e riviste di settore (“Poesia” di Crocetti e “Atelier”). La sua è una poesia che, saldamente radicata nella tradizione novecentesca (in particolare in Sereni, Montale, Luzi e Pasolini), dispiega e attraversa il turbamento, la mancanza e la scomparsa nel continuo intreccio tra vissuto personale e storia collettiva, “Sono splendidi squarci luminosi che solo un verso prezioso e sensibile può aprire” (Maurizio Cucchi). Una scrittura nera, ma di una nerezza feconda, nilotica, di limo. Piene immaginative e concettuali che impregnano le desertiche pagine di figure di pece, simboli appiccicosi, sentenze nette, amare, necessarie. Quello di Zattoni è un darwinismo riluttante, sofferente, fatale: per sopravvivenza ci si adatta a tutto, anche al grigiore, alla cupezza, al perturbante. E il perturbante è, freudianamente, familiare (e viceversa): lo scenario è sepolcrale, foscoliano; si riconcorrono lupi hobbesiani (o lupe romane, allattatici e salvatrici?); appaiono spettri genitoriali in forma arborea, a metà fra gli sterpi danteschi e gli hollow men eliotiani; è ribadito il disagio mannaro dell’umanità (“anche le bestie si riproducono / ma non pretendono per questo nomi propri”); infine l’inevitabile constatazione che “la trasmissione della violenza è un sapere / dove mettere la fronte sul banco”:

Fuori è un rincorrersi di lupi
che sia il lamento più cupo del cuculo?
i genitori come alberi sempre-spogli
– avremo fatto bene a metterli al mondo?
tutte le forme del dubbio nei loro occhi
anche le bestie si riproducono
ma non pretendono per questo nomi propri
i figli che non tornano
sono riapparsi oggi con le mogli
non più felici di quando erano partiti
nei giardini delle elementari
la trasmissione della violenza è un sapere
dove mettere la fronte sul banco
e che nessun rifiuto equivale a un rifiuto
finché qualcuno non ti ferma la mano
vagamente a disagio li stanno aspettando

(Da I figli che non tornano.)

Coetaneo – e fratello nell’immaginario – di Zattoni è Filippo Amadei (Forlì, 1980), che ha pubblicato

le sillogi La casa sul mare (Il Ponte Vecchio, 2005), Saperti a piedi nudi (LietoColle, 2009) e Oltre le ringhiere (Raffaelli, 2014). La sua poesia persegue il taglio netto, l’autopsia, l’amputazione; così scrive in un inedito: “Al telefono la notizia è quella del ricovero / lo dice al nipote con estrema calma / una semplicità del tutto straordinaria.  / Ma la semplicità è una lama – anche sua mamma / quando era giovane tirava il collo alle galline / pensando al pranzo da cucinare.” C’è qui tutto l’ingombro del corpo: scansionato, ecografato, vivisezionato. Un body horror esistenziale, purificato da ogni impulso voyeuristico, più vicino alle sofferte indagini di Schiele e agli autoritratti di Francis Bacon che alla visionarietà allucinata di Carpenter. Così è descritta l’anatomia della malinconia in Genesi inversa:

Quando sono in dormiveglia il pomeriggio
sull’orlo di un sogno formatosi appena
di poche immagini ho una vertigine, a capofitto
cominciano a cadere i miei occhi
le ginocchia ritornano al petto, un anello
formano mani e tibie, un velo di placenta
sulle palpebre, la schiena si piega molle
i piedi si ritirano, nel grembo del sogno
sono un gomitolo di tendini e pelle
spasmi di vertebre nel liquido
viscido del buio − si azzera di nuovo tutto
il mio ultimo ricordo è la luce.

Ancora più esigente e sanguinaria è la scrittura di Clèry Celeste, classe 1991, direttrice editoriale di “Atelier poesia” on-line. Nel suo libro d’esordio, La traccia delle vene (Lietocolle, 2014), scintilla come un bisturi – o un ago – la precisione del dettato, ricco di termini medico-scientifici e capace di incidere immagini di rara esattezza e potenza, spesso incentrate sul mondo animale e vegetale. In questi testi prende forma e voce la vocazione endoscopica (nel senso etimologico di “guardare dentro”) che ha animato anche gli studi radiologici dell’autrice: i suoi sono versi implacabili, diagnostici, per cui vale la costatazione da lei rivolta alla sua occupazione ospedaliera (“Ho smesso di guardarli in faccia / magari ricordo i nomi” / ma finisci il lavoro / e il dramma è essere bravi / non sentire niente). È una poesia che non fa sconti, che esamina, che esplicita: c’è una disciplina artaudiana, una vera e propria rabdomanzia del perturbante, che viene colto nei terrifici scorci del quotidiano…

Il mio è il panico della chiusura
dell’ipermercato, quando le cose
stabiliscono un urlo morboso
e la carne in scatola si apre
le ferite. Dormono tutti col cappio
appeso, è solo una questione
di tempo.

…e nella trama delle relazioni, auscultate e compulsate con estrema, quasi insostenibile, lucidità:

Riesamino i segmenti
rigidi di noi come shanghai sul tavolino
e butto via ogni anno
come strappo i petali della margherita
“eri vero, eri falso”, è un gioco
poco felice
ti faccio a pezzi dentro
prima la mano che teneva la mia
poi il petto e parto seguendo
la traccia delle vene
risalgo alla radice
il cuore non lo trovo
.

Lunare è anche la poesia di Isabella Leardini (Rimini, 1978) autrice, oltre che di due selezionate raccolte – La coinquilina scalza, Niebo, 2005 e Una stagione d’aria, Donzelli, 2017 – di un saggio che, rielaborando anni e anni di laboratori per adulti e ragazzi, fornisce preziosissimi strumenti per addentrarsi nel mistero della poesia e orientarvisi come lettori, dilettanti appassionati e aspiranti poeti (Domare il drago, Mondadori, 2018.)

Una scrittura lunare nel suo legame magnetico con le misteriose forze che regolano le maree. Lunare in riferimento alla luna calante di Ecate, dea della notte e della magia, dei crocicchi e della necromanzia.  

Al di là della limpidezza e della cantabilità del dettato, vi si scorge infatti una filigrana, una voce in controcanto,che, a una lettura approfondita, si rivela il “cuore di tenebra” della sua poesia. È il dettaglio capace di incrinare l’equilibrio dell’insieme, la scintilla di follia e disperazione che brilla anche nello sguardo apparentemente più saldo.

È un gotico marino, anzi balneare, in cui risuona il grido muto dell’estate violata dai turisti, in cui la memoria torna a infestare le pensioni diroccate dall’inverno, in cui l’amore intrude, svuota, inscheletrisce:

Siamo una scatola che non si chiude
come chiudono imperfette le conchiglie
lo spazio che basta per entrare
all’intrusione che rompe il segreto
e al pericolo scoperto di restare
svuotate all’improvviso. Così il mare
può brillare concavo nel buio
forma liscia di una gioia che indurisce
all’urto di ogni nascere e mancare.
Ogni amore ha la sua regola non detta
è lo strappo nascosto del vestito
animali che si muovono notturni
nell’inverno diverso del fondale.
Ma questo scheletro è una cattedrale
sarà l’impronta delle cose che resistono
scavate negli amori per durare.

(da Una stagione d’aria).

Un orrore polare, lovecraftiano, cosmico – imparentato con le vertigini del sublime e la

follia sciamanica dei popoli della steppa – risuona nella poesia di Davide Brullo, nato a Milano nel 1979 e riminese d’adozione. Un orrore che non è quindi abominio da fuggire, ma terrificante miracolo a cui assistere, tremenda rivelazione, oscura epifania. Prolifico scrittore (suoi i romanzi Rinuncio, Ingmar Bergman. La vita sessuale di Franz Kafka, Pseudo-Paolo. Lettera di San Paolo Apoastolo a San Pietro, Un alfabeto nella neve e le muriatiche Stroncature per GOG), traduttore (in primis dei Salmi e del Libro della Sapienza) e giornalista (fondatore di “Pangea” e direttore de “L’intellettuale dissidente”), Brullo ha pubblicato selezionatissime raccolte di poesia: Annali (Atelier, 2004), L’era del ferro (Marietti, 2007) e Abbecedario antartico (Raffaelli, 2017). Vero e proprio cenobita (sia in senso monastico che barkeriano), Achab-Kurtz della letteratura italiana contemporanea, insegue senza pietà, con sguardo rompi-ghiaccio di pioniere e fiuto di squalo, la sua balena bianca, fatta di visioni abbacinanti, versi aguzzi e indicibili profezie. Surrealismo prometeico, mal d’aurora montevideano, sacra follia:

«il nord mi annienta» cita
Puskin levigando l’orgoglio alla chiglia –
dormire tra i ghiacci impedisce
ai ricordi – ne è convinto – l’accumulo

qualcuno ha scritto che i morti
vivono proprio qui tormentando
il bianco che pareggia gli iceberg ai re

«ma con la neve ci eleviamo
sopra le canoe – sembrano labbra
sul ciglio della sillaba che sa radiare
questo gelo in gioia – sopra la luce
che allaga ciò che hai desiderato per tutti –
sopra il mantiche che proietta la sula
a Oriente e ne rimastica il ritorno – sopra
la mattina che ci vide corrodere
i venti con scie di ruggine…»

l’episodio si rovesciò e gli uomini
ridiventarono denti – «che cosa sa
il ghiaccio della mia vita?»

(da Abbecedario antartico.)

Bibliografia essenziale

  • Anselmi G.M., Bertoni A., Raimondi E., Una geografia letteraria tra Emilia e Romagna, CLUEB, 1997.
  • Della Monica W., Poeti e scrittori di Romagna. Trenta tra i maggiori autori romagnoli dell’età moderna e contemporanea, Il Ponte Vecchio, 2015.
  • Fantuzzi M., La generazione entrante. Poeti nati negli Anni Ottanta, Landolfi, 2011.
  • Martini G. (a cura di), Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90, Internopoesia, 2019.

Sitografia essenziale

Michele Ghiotti (23 novembre 1989) è nato a San Marino, dove vive e insegna Lettere al Centro di Formazione Professionale. Suoi versi sono stati selezionati dallo scrittore e poeta Davide Rondoni per il concorso In che verso va il mondo e dal poeta e critico milanese Maurizio Cucchi per La bottega di Poesia de «La Repubblica» (ed. Milano). Sulle riviste «Crack», «Carie» e «Retabloid» sono apparsi due suoi racconti brevi, Diario metempsicotico e A volte l’aria è più solida del cemento. Recentemente ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie Preistoria primavera (Italic Pequod, 2021)

Bulb – Arte Cannibale

Questo mese Bulb si cala in un’atmosfera molto intima e vi mostra da vicino il lavoro di Arte Cannibale, artista visiva e performer, che per il poster di Gennaio ci ha stregato col suo contributo.

And I suffer very well” – (serie fotografica)

Questo mese Bulb si cala in un’atmosfera molto intima e vi mostra da vicino il lavoro di Arte Cannibale, artista visiva e performer, che per il poster di Gennaio ci ha stregato col suo contributo.

“esplorare i temi della memoria, del corpo e dell’archiviazione come atto performativo di ricerca e di attenta autoanalisi, attraverso il quale indagare e confrontare sentimenti e tracce del proprio vissuto”

Il dittico che vi proponiamo è un estratto da una serie di fotografie dal sapore intimistico che si addentrano nell’archivio dei ricordi dell’artista e si trasformano in una profonda riflessione alla ricerca del Sé. La formula del dittico è uno strumento che rimanda alla definizione greca dei manufatti, composti in modo da piegarsi in due emulando un libro. Da qui il significato intimo del diario, che con una narrazione quasi innata, mette in dialogo due momenti anche scollegati tra loro del vissuto dell’artista e ne crea una nuova forma, sottraendo gli scatti dal loro significato iniziale.

Memoria, corpo, testimonianza, questi i temi su cui Arte Cannibale sperimenta nuovi sguardi, quasi come un esercizio di consapevolezza, ma anche il diritto di poter cambiare idea, ed evolversi come cambia il tempo per non rimanere ancorata a una visione démodé degli eventi.

Altri estratti dalla serie “And I suffer very well”

Arte Cannibale

Classe ’97, artista e performer laureata in scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna, frequenta la specialistica in Studi Performativi e di Genere allo Iuav. La sua poetica è strettamente legata all’attivismo, all’esperienza di genere e all’identità. Ha curato e auto-prodotto alcune fanzine, partecipando a progetti e mostre collettive (Yogurt Magazine, Not my Body, Emotional Fuckers). Nel 2016 ha fondato la pagina Instagram, «Artecannibale», il cui scopo è quello di approfondire il rapporto tra arte, corpi politici e social media.