All’interno della nostra rubrica, la parola “zoom” simboleggia una “zoomata” metaforica nell’operato artistico dei suoi protagonisti. Nell’intervista di oggi lasciamo momentaneamente le metafore da parte e restituiamo un po’ del significato originale al titolo della nostra rubrica.
Abbiamo infatti come ospite Sonia Formica, fotografa classe 1984, tra le più attive e riconosciute del territorio emiliano–romagnolo.
La ricerca artistica di Sonia si basa su un’analisi profonda dell’uomo, attraverso i meandri delle sue emozioni, per cercare di portare alla luce i sentimenti che «troppo spesso vengono custoditi dentro i cassetti dei nostri ricordi».
Abbiamo chiesto a Sonia di “svuotare qualche cassetto” con noi e di raccontarci un po’ dei suoi progetti.
INFLUENZE
D: Guardando il tuo operato si nota immediatamente una spiccata sensibilità, sia nella scelta delle tematiche che proponi, sia nella cura a 360 gradi di soggetti e ambientazioni. Andrea Camilleri scriveva che «L’artista è colui che ha una costante percezione alterata della realtà», una realtà che per un fotografo si manifesta come un reperto da documentare.
Ti va di raccontarci a cosa ti ispiri per la realizzazione delle tue opere e quali sono le tue influenze all’interno del mondo che rappresenti attraverso il tuo obbiettivo?
R: Le idee e l’ispirazione arrivano dalla mia pancia, dalle emozioni che provo nelle varie fasi della mia vita e dal bisogno che ho di buttarle fuori. Tradurre i miei stati d’animo in fotografie mi aiuta a capire chi sono e a star bene con me stessa. Ovviamente anche dal capire gli altri. Mi piace moltissimo cercare di comprendere i comportamenti della società in cui viviamo.
La fotografia è il mio linguaggio io comunico attraverso di lei in maniera naturale.
Sono influenzata da tante cose ho sempre amato la musica, la storia del costume, ho fatto tre anni di pittura all’Accademia di Belle arti oltre che la specialistica in fotografia, mi piace l’illustrazione adoro le tecniche di stampa antiche dall’incisione alla serigrafia. Ho fatto per anni allestimenti per eventi e ne ho creato uno ispirato alle epoche storiche. Io sento che tutte queste cose sono presenti nei miei lavori.
Appena ventenne ho visto le fotografie di Tim Walker su Vogue e me ne sono innamorata. In quelle fotografie ho riconosciuto me stessa, c’era tutto quello che mi rappresenta: costumi spettacolari, il surrealismo, la storia, mi sembrava quasi di entrare nei sogni dell’autore. Più avanti ho scoperto Luigi Ghirri, che mi ha raccontato invece nella maniera più semplice e poetica le mie radici, che a volte mi sembrava di non avere. Scoprirlo mi ha aperto una finestra ancora più grande.
Questi due fotografi e artisti li considero ancora oggi i miei artisti preferiti, nonostante stimi e apprezzi tantissimi altri fotografi, sono stati quelli che hanno fatto scoccare quella scintilla speciale.

ASSURDITA’ DELL’ESISTENZA
D: Hai citato il surrealismo e dunque il collegamento con il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e Harold Pinter viene spontaneo. Questo tema è tra l’altro oggetto di citazione all’interno di un tuo progetto intitolato Assurdità dell’esistenza, di cui un’opera è stata selezionata ed esposta alla Biennale dell’assurdo di Castelvetro di Modena nel 2011. Le fotografie che proponi sono realizzate in ambientazioni post apocalittiche, in netto contrasto con i costumi medioevali/fiabeschi utilizzati. Il tutto sembra animare un’azione totalmente decontestualizzata e fuori dal tempo.
Come riesce il fotografo a ricreare in scena qualcosa di surreale, rendendolo per qualche istante concreto e tangibile, per poi restituirlo nuovamente al suo ambiente originario a lavoro concluso?
R: Qualsiasi cosa che noi facciamo, se si riferisce e si ispira a quello che è il nostro vissuto e ai nostri sogni, sicuramente risulta sincero e credibile. Se invece l’idea alla base viene generata per stereotipi è visibilmente più debole. Nel caso del surrealismo l’immaginario si rifà all’inconscio, sogni e incubi, tutto quello che la nostra psiche vive senza il filtro della veglia. Nel caso specifico la foto che avete preso in analisi cita: «Nasciamo tutti quanti matti, qualcuno lo rimane»; ecco io l’ho interpretata pensando alle mie paure, cercando di mettere in scena qualcosa che accomuni tutte le persone e che, volenti o nolenti, ci portiamo dietro nel corso della nostra vita.
In sostanza, un’esperienza artistica, per risultare autentica. deve rifarsi a una fetta consistente del nostro vissuto. Un po’ come gli attori che per recitare in una scena drammatica devono pensare a una loro esperienza per generare un sentimento che risulti credibile. Quello che si crea è dunque finzione ma che riproduce, allo stesso tempo e per qualche istante, un’emozione passata e reale.
Mi fa piacere poter parlare di queste cose perché ciò è il messaggio che cerco di lasciare ai miei studenti, cercando di non farli ragionare per stereotipi e mettendo in primo piano le loro emozioni in maniera sincera.

AMORE LIQUIDO
D: Nel tuo progetto Amore liquido affronti un’analisi sulla società attuale, raccontando di come il mondo, spesse volte, ci costringa ad un moto perpetuo, obbligandoci a passare repentinamente di stato, rendendoci dunque impossibile la creazione di legami duraturi nelle nostre vite. Da questi lavori traspare quindi una sensazione fredda, posta in evidenza dalla stessa scala cromatica predominante in tutte le opere. Allo stesso tempo è però percepibile anche la sensazione opposta, il calore, sprigionato dall’emotività dei soggetti che hai reso protagonisti.
La fotografia risulta quindi un metodo di espressione che richiede al fotografo una notevole flessibilità emotiva, in modo da permettergli di avere all’interno di sé sia il calore di percepire l’empatia scenica, sia la freddezza del racchiuderla all’interno di un’immagine per sempre.
Come avviene in te questo passaggio tra il calore del “saper frugare nell’intimità” e la freddezza della macchina fotografica?
R: Io non le considero due cose separate. Trovo che all’interno del mio lavoro non ci sia la “freddezza” a cui fai riferimento perché mi sento immersa all’interno delle foto in ogni loro fase: da quando scatto a quando post-produco. Fotografo e macchina fotografica sono un tutt’uno. Magari cambia la macchina fotografica a seconda dell’utilità: se bisogna fare uno scatto di moda si avrà un obbiettivo diverso da quello per una foto di natura. La stessa cosa avviene se devo ritrarre un soggetto grande o invece un particolare. Non conta tanto il mezzo ma come si vedono le cose.
Faccio un esempio. Gli scatti di Amore liquido sono stati realizzati sia in analogico che in digitale e mi è capitato di fare vedere entrambe le versioni a un fotografo che sosteneva di saperne riconoscere la differenza; ma non ci è riuscito. Questo per dire che al di là del progetto che uno deve realizzare conta con che occhio si guarda ciò che ci sta attorno.

PENSIERI RIFLESSI
D: Il tempo è oggetto di riflessione della tua serie Pensieri Riflessi, una selezione di opere che ci induce a ragionare sulla memoria e sul rapido susseguirsi di attimi che la popolano. Si tratta di immagini volutamente sfocate e mosse simulanti il processo che si genera nella nostra testa nel momento del ricordo, quasi a riprodurre l’attimo che precede la visualizzazione di un flash back della nostra vita.
La cosa che più mi ha colpito è il coinvolgimento dello schermo (che sia il finestrino di un treno o il display di un telefono) elemento col quale filtriamo lo scorrere dell’avvenire. Questo attore estraneo si frappone tra noi e la realtà, restituendoci una versione distorta e confusa che in molti casi altera la nostra percezione originale di ciò che ci sta attorno.
Secondo te qual è la vera realtà da rappresentare? Quella che vediamo con i nostri occhi o quella che filtriamo attraverso uno schermo?
R: Queste opere rappresentano i miei viaggi in treno, quindi, sebbene non ci sia io direttamente all’interno delle fotografie, il soggetto protagonista sono io attraverso i miei stati d’animo.
Quelli di Pensieri riflessi sono i paesaggi della nostra mente: il vetro in cui ci riflettiamo ci risponde mostrandoci solamente i nostri pensieri. Il filtro, al contrario di quello che si può pensare, non è il finestrino, ma siamo noi direttamente.
Mi è capitato di affrontare questo tema diverse volte mentre studiavo all’accademia. È difficile rappresentare una realtà oggettiva, perché c’è sempre l’elemento dell’interpretazione personale. Se si chiede di rappresentare lo stesso oggetto a dieci persone, si otterranno dieci versioni differenti. È raro che ci siano fotografie uguali. Ogni persona è a sé, ed è dunque giusto che il lavoro di ognuno rappresenti una visione differente, quasi un altro oggetto se vogliamo.
La realtà è sempre un elemento soggettivo, quello che l’artista rappresenta è sempre una verità interiore.
Alessandro Assirelli
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