Il weekend è il momento perfetto per esplorare le numerose attività di Art City, l’art week bolognese in occasione di Arte Fiera, dal 27 gennaio al 5 febbraio 2023. E noi di spine vogliamo consigliarvi il percorso migliore secondo noi per chi ha voglia di fare una maratona d’arte e destreggiarsi nel fittissimo programma dell’edizione di quest’anno.
Qui vi proponiamo un percorso ragionato, per visitare le mostre centrali del main program accompagnate dalle proposte dei numerosi musei, fondazioni, gallerie e spazi indipendenti della città.
Cartina alla mano, e via esploratori!
Come saprete, il tempo è denaro, per questo motivo il percorso che proponiamo è pensato per cogliere quanti più luoghi d’arte il vostro corpo sarà capace di visitare, all’esploratore è lasciata la scelta di seguirlo nel tempo di un week end all’insegna dell’arte o meno (dipende da quanto è lungo il vostro week end!).
I numeri sulla mappa non sono casuali! Sono esattamente gli stessi riportati sulla mappa ufficiale di Art City Bologna 2023, indispensabile per gli esploratori. Il percorso parte dal Cassero LGBTI+ Center e finisce al Laboratorio degli Angeli dalla parte opposta della città, ma volendo si può invertire il senso di marcia.
Qui la lista completa dell’itinerario con luoghi e mostre in corso:
Cassero LGBTI+ Center, via Don Minzoni 18 – Natalie Djurberg. Putting down the prey (dal 2 febbraio)
MAMbo, via Don Minzoni 14 – Yuri Ancarani. Atlantide 2017-2023 (dall’1 febbraio)
Parsec, via del Porto 48/CD – Christine Bax e Camilla Carroli. Untangle the Jungle (dal 27 gennaio)
Gallleriapiù, via del Porto a/B – Emilio Vavarella. Re:Presentation (dal 27 gennaio)
Studio Ferrari, via Padre Francesco Maria Grimaldi 3/A – ASAP + Studio Ferrari. Scarcity (dal 27 gennaio)
P420, via Azzo Gardino 9 – June Crespo. Acts of Pulse (dal 2 febbraio)
Oratorio di San Filippo Neri, via Manzoni 5 – Lucy + Jorge Orta. Seeking blue gold (dal 2 febbraio)
Fondazione del Monte, via delle Donzelle 2 – Pinuccia Bernardoni. Una felice corsa (dal 27 gennaio)
Da qui dovrete fare una scelta: il dono dell’ubiquità non ce l’abbiamo ancora… e poi che gusto c’è se vi diciamo tutto noi? Prendete il percorso che vi ispira di più e lasciate il resto a un’altra volta… essere pragmatici fa risparmiare tempo, ma per certe cose vale la pena perderlo.
Galleria d’Arte Maggiore G.A.M., via D’Azeglio 15 – Sissi. Trasguardi (dal 27 gennaio)
Galleria Studio G7, via Val’ D’Aposa 4/A – Anne e Patrick Poirier. Apoptosi (dal 27 gennaio)
Galleria Paradisoterrestre, via De’ Musei 4 – Augusto Betti, Alberto Biasi, Calori & Maillard, Angel Duare, Novello Finotti, Pierre Gonalons, Allen Jones, Edoardo Landi, Roberto Matta, Andy Picci, Paola Pivi, Tobia Scarpa, Kazuhide Takahama. Limited (dal 27 gennaio)
Per il percorso di sinistra:
Palazzo Bentivoglio, via del Borgo di San Pietro 1 – Patrick Procktor. A view from a window (dal 1 febbraio)
Pinacoteca Nazionale di Bologna, via delle Belle Arti 56 – Salone degli Incamminati, Giovanni Blanco, Jacopo Casadei, Rudy Cremonini, Domenico Grenci, Enrico Minguzzi, Nicola Samorì. Ex5 (dal 4 febbraio)
Museo della Specola, via Zamboni 33 – Cuoghi Corsello. Mostri. Noi, gli altri, sé stesso (dal 2 febbraio)
Il percorso fa ricongiungere gli animi per la mostra al Labs Contemporary Art, e magari ci scappa anche un aperitivo nel mezzo!
Labs Contemporary Art, via Santo Stefano 38 – Greta Schödl. Il segno traccia del nostro vissuto (dal 27 gennaio)
Alchemilla, via Santo Stefano 43 – Roberto Fassone + Ai Lai + LZ. And we thought III (dal 28 gennaio)
Laboratorio degli Angeli, via degli Angeli 32 – Eva Marisaldi. Guarda Caso (dal 30 gennaio)
Se siete arrivati fino a qui, beh complimenti!
Per gli animi ancora affamati segnaliamo alcune mostre che resteranno aperte anche dopo il 4 febbraio come quelle alla Fondazione Lercaro con opere di Renato Guttuso, Gianfranco Ferroni, Ennio Morlotti e Franco Francese, la Fondazione Mast con Mast Photography grant on industry and work/2023 e il Museo per la Memoria di Ustica con Christian Boltanski.
Per chi ama il cinema la Cineteca di Bologna organizza la rassegna Art City Cinema e eventi al DamsLab in Piazzetta Pier Paolo Pasolini; mentre chi visiterà Arte Fiera non può perdersi la mostra di Jonas Mekas al Padiglione de l’Esprit Nouveau.
Tra gli eventi “off program” segnaliamo le iniziative SSSTAY! una collettiva di performance, e Hard City Bologna e Corneraholic degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, trovate tutte le informazioni cercandoli su instagram!
Ora, cosa aspettate?! Infilate le vostre scarpe più comode e preparatevi per scoprire la città come solo in questo periodo si può fare!
Tu che lo sai, dimmi cos’è essere luce in questo lamento che arriva da lontano.
Essere luce nel fragore nel desiderio, nella speranza quando la vita si schianta.
Dimmi il peccato nella mano tesa, nella lingua del corpo che si fa canto.
*
Per Camille Claudel
I
C’è un punto nel sul collo tra cuore e clavicola dove si raccolgono le lacrime.
Nel solco appena accennato ristagna, fa male. Se scavi in quel punto, Camille comprendi una figura di madre il suo corpo, gli occhi più grandi il dolore non detto le mani incrociate sulle ginocchia.
*
La falena tigre ha gli occhi della notte figura fragile venuta in sogno vestale della consolazione. Muta sulla parete della stanza lei è testimone degli amanti la semina, il canto, l’incendio delle ali.
*
Se tocchi la sottile membrana che mi avvolge io sono ancora bozzolo bozzolo che esplode sono farfalla ali che impazzano sulla schiena.
Rossella Renzi, insegnante, scrittrice, poetessa, ha pubblicato in versi I giorni dell’acqua (L’arcolaio 2009), Il seme del giorno (L’arcolaio 2015), Dare il nome alle cose (Minerva 2018), Disadorna (peQuod 2022); il saggio Dire fare sbocciare. Laboratori di poesia a scuola (E-book per Pordenonelegge 2018). È redattrice di «Argo» e di «Poesia del nostro tempo». Per la casa editrice Argolibri dirige la collana “Territori” per cui ha curato il volume Argo 2020 L’Europa dei poeti. Ha curato, insieme ad altri critici, L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie e numerosi Annuari di poesia. Conduce “Novissime, podcast mensile di poesia e letteratura” insieme a Lello Voce. Con musicisti e artisti di vario tipo realizza progetti che indagano il rapporto tra la poesia e le diverse forme espressive. Con l’Associazione Independent Poetry organizza eventi letterari. Si è laureata nel 2003 all’Alma Mater di Bologna col Professor Alberto Bertoni, con una tesi su Eugenio Montale e la poesia del secondo Novecento.
Sei arrivato silenzio ma in fondo ci sei sempre stato. Ti ho imparato così al buio dentro al pieno dentro al vuoto in un’alba di gelo non ancora nata.
Sotto l’orizzonte ad attendermi il tenace e severo abbraccio di un tempo aspro dalla luna opposta in terra di Ananke.
Iniziata sui muri delle tue stazioni l’itinerario del viaggio l’ho imparato così al buio con l’occhio bambino spalancato sopra l’orizzonte.
E sì su qualche muro ho sbattuto le finestre al pianto recitando la paura pedaggio equo alla felicità che copre il dolore.
*
Viaggio
Regna l’assenza come in una lunga notte artica quando il sole non sorge per settimane.
Regna l’assenza del calore di ogni vincolo la transumanza del mio cuore ricomincia mentre un vento gelido passeggia senza identità sul vuoto.
L’assenza profuma di dolore il mio sentiero mentre tramortisce e divora ogni già ebbra traccia.
Camaleontici sgabuzzini come sacri sudari mi offrono scollacciate memorie.
Perché mi fissate polifemiche da dentro la ciotola del dispetto legate ancora a bui rinneghi?
I. Errani, In terra di Ananke, Dialoghi Edizioni
Guardo oltre il fuoco del mio respiro mentre appesa alla porta del futuro il tintinnìo della resa mi sveglia lo sguardo.
E l’assenza come in un’alba boreale già non mi pare più così gelida.
*
Oltre quel muro
Ho scelto di incappucciare il mio già scheggiato cuore di mangiare brindare piangere ridere danzare con la tua maschera dai veri spartiti nascosti accanto alla siepe di un sogno
per attraversare un tempo con te.
Ho scelto l’affanno trascinando le linee del mio volto interiore a scomporsi bisbigliando azzardi amorosi con le tue contraffatte carte dalle riconversioni impossibili battezzate ogni volta da bari caffè
quasi avessi atteso a lungo un tempo con te.
Ho scelto d’incollare la pioggia acida di profetiche parole su occhiali rosa tatuati d’improbabili ti amo insieme all’ultimo coagulo di dignità acciambellata come un gatto sulle finestre dei tuoi palazzi arabescati già di rancorose ragnatele.
Ho scelto come una lupa violata ogni notte per tante notti di leccare sulla tua pelle le mie livide strappate vele dall’ultima pioggia dell’ultimo tuono e di saltare al di la della strada oltre quel muro abbracciata ai miei rossetti ai miei tacchi a spillo al Male solo all’alba del dopo Natale
quasi fosse meno forte il dolore che schiaccia la schiena al cuore.
Ho scelto di non scegliere gli amici dai lindi armadi dai rossi larghi sorrisi dai generosi abbracci dall’improvviso inedito rigore nelle ore più torbide del disonore.
Ho scelto di abbandonare il buio degli occhi umidi della colpa e sola ho preso per mano la paura dalla pancia alla piazza lungo i corridoi di un tribunale giusto ho annusato il fruscio del Male dal ghigno passepartout dall’occhio secco dal profilo di lama.
Ho scelto l’oltre quel muro quasi fosse il tempo di riprendermi le mie vele.
Isabella Errani è nata a Lugo di Romagna (RA) nel 1958 e abita a Bagnacavallo. È stata educatrice di asilo nido e bibliotecaria alla Biblioteca “F. Trisi” di Lugo. Ha partecipato a vari premi letterari nazionali e internazionali di poesia, ricevendo premi, riconoscimenti e menzioni d’onore.
C’è una nuova realtà che sta popolando i venerdì pomeriggio bolognesi, tra arte, musica e installazioni immersive, Progetto Alluminio è la proposta artistica dell’appartamento di via San Felice che offre un nuovo spazio di sperimentazione alla città.
In questo Art Advisor abbiamo intervistato i ragazzi di Progetto Alluminio.
Progetto Alluminio ha ospitato una serie di eventi multidisciplinari tra marzo e aprile 2022. Chi siete e come nasce il progetto?
Progetto Alluminio nasce da un’idea di Riccardo Tesorini e Gaia Nieri, coinquilini dell’appartamento in via San Felice che ha ospitato il progetto. Entrambi attivi nell’ambito artistico, Gaia e Riccardo hanno deciso di rendere la propria casa un luogo espositivo e di partecipazione collettiva. Questo è stato possibile anche grazie al contributo di altre figure come Federica Amaddii Barbagli, Camilla Medori, Chiara Ferri, Giulio Grillo ed altri. Ed ovviamente agli artisti che hanno deciso di partecipare: Riccardo Tesorini, Valentina Cima, Lorenzo Fasi, Biagio Cavallo, Daniele Carcassi e i dj Vicky e Dengue Dave.
Lo spazio espositivo è ricoperto di alluminio, una sala che non vuole essere neutra e si oppone al white cube istituzionalmente inteso, che pensiero c’è dietro questa scelta?
Proprio così! L’idea di rivestire la sala di alluminio è nata quasi per gioco… l’alluminio ci ha permesso di immergerci in qualcosa di extra-ordinario stimolando in noi la possibilità di sovvertire uno spazio intimo e privato, spogliato della sua funzione abituale. Nel pensare questo spazio come base del progetto abbiamo trovato interessante l’idea che l’alluminio fosse a tutti gli effetti un soggetto agente: gli artisti si sono confrontati con questo elemento ricorrente, muovendosi all’interno di un ambiente fortemente caratterizzato che ha suggerito loro un atteggiamento site-specific.
Progetto Alluminio è diventato in poco tempo uno spazio di aggregazione e di scambio da vicino per chi lo ha visitato, questa era una necessità che a Bologna ha sempre trovato spazio, e ora che le restrizioni si stanno allentando sta riemergendo, è stato un bisogno anche per voi o è un effetto collaterale del progetto?
Progetto Alluminio nasce nel pieno della pandemia. La nostra è stata una reazione alla paura e alla diffidenza, in un momento difficile, in un’epoca storica costellata di crepe e vuoti. Una sorta di anticorpo in cui abbiamo sviluppato un discorso con al centro una proposta artistica sfaccettata e senza confini di alcun genere.
Le vostre proposte artistiche sono molto varie, abbiamo visto pittura, installazioni, video, musica, come scegliete gli artisti e i lavori da ospitare? Seguite una filosofia o una scelta poetica precisa?
L’unica vera poetica è ascoltare lo spazio: vogliamo che la proposta artistica sia in sintonia con esso. Lo spazio ha scelto per noi: proprio la forte caratterizzazione della sala, data dall’alluminio, ha richiesto all’artista di pensare, o ripensare, l’opera propriamente per quel luogo.
Ora vi siete un po’ fermati, ma forse c’è qualcosa ancora che bolle in pentola, che progetti avete per il futuro? Continuerete ad aprire la sala alluminio di via San Felice o il progetto evolverà?
A dire il vero non ci siamo mai fermati! Ci siamo dati del tempo per preparare l’evento che ha concluso questo primo ciclo di Progetto Alluminio. Si tratta della soundwalk del 3/7/22 terminata con un gesto per formativo di disallestimento collettivo (e a sorpresa dei partecipanti) della sala dell’alluminio. Abbiamo diversi progetti futuri ma per il momento preferiamo non anticipare nulla. La nostra intenzione è rendere Progetto Alluminio fluido e nomade: non vogliamo ancorarci al luogo in cui è nato ma espanderci e accogliere nuove proposte artistiche mantenendo la nostra identità.
Tra un’opera e l’altra siamo dunque capitati durante l’allestimento dell’ultimo progetto espositivo della galleria andato in scena nel weekend tra il 27 e il 29 Maggio a Faenza. Ad esporre nel contesto faentino è stata Victoria DeBlassie, artista statunitense con doppia cittadinanza italiana, che da anni vive e conduce la sua ricerca artistica in Italia.
Abbiamo quindi deciso di fare irruzione ed interrompere l’allestimento per non farci scappare l’occasione di scambiare due parole con un’artista incredibile come Victoria! Nelle breve intervista che abbiamo realizzato abbiamo parlato di agrumi, sostenibilità e materiali di recupero. Buona Lettura!
D: La tua storia è molto particolare e questo è uno di quei casi in cui è corretto dire che comincia realmente lontano da qua. Ti va di raccontarci come ti sei avvicinata al mondo dell’arte e come mai la scelta di rendere protagonisti gli agrumi nel tuo lavoro?
R: Vengo da Albuquerque – New Mexico – tra Texas e Arizona. Quando avevo 15 anni sapevo già di voler fare l’artista, perché vengo da una famiglia dove l’arte è sempre stata presente. Quindi il mio non è un percorso nato per caso! Comunque, in adolescenza la mia mansione in casa era quella di fare la spremuta d’arancia per il brunch della domenica. Così come in Italia c’è l’usanza del pranzo della domenica, noi (negli Stati Uniti) abbiamo il brunch, che altro non è che un’unione tra una colazione in ritardo e un pranzo in anticipo. Quindi, dopo tutte quelle spremute, pensavo fosse uno spreco buttare via le bucce d’arancia e quindi ho iniziato a raccoglierle, conservarle e lasciarle asciugare al sole. Da lì ho cominciato a trarre ispirazione e a iniziare ad utilizzare i materiali di scarto all’interno del mio lavoro.
Fin dall’adolescenza ho sempre avuto in mente di poter sviluppare la mia tecnica tramite il processo di conceria utilizzato sulle bucce degli agrumi. Dopo essermi laureata, prima presso l’università del New Mexico, poi presso il California College of the Arts, ho approfondito la mia ricerca sugli agrumi e, grazie anche alle mie origini Lucane, ho avuto modo di poter studiare per un po’ in Italia durante il mio master e mi sono subito innamorata. Ho capito immediatamente di voler tornare e ho fatto domanda per un progetto all’estero, sempre in Italia. Durante il mio percorso di studi, personali e accademici, ho avuto modo di approfondire tantissimo il tema degli agrumi. Per esempio ho letto questo libro che si chiama “Oranges”- di John Mcphee – che parla dell’utilizzo delle arance nella storia. Mi ha colpito molto una parte riguardante la storia italiana, con particolare attenzione al periodo rinascimentale. Pensa che in quell’epoca storica le arance avevano valore paragonabile all’oro, erano prestigiose, rare e soltanto le persone ricche potevano permettersele. Si dice persino che nello stemma dei medici le sfere presenti simboleggino in realtà arance.
D: Dunque la scelta di utilizzare materiali di recupero è sempre stata presente all’interno della poetica del tuo lavoro creativo. Come pensi sia cambiato ed evoluto nel tempo il tuo rapporto con i materiali che utilizzi?
R: La mia ricerca – appunto – è cominciata quando avevo 15 anni. Mi sembrava uno spreco dover buttare le bucce di arancia che avanzavano per la spremuta. Questo è stato il mio spunto principale per iniziare la mia ricerca. Tutti gli oggetti che abbiamo intorno nella nostra vita hanno una storia che dobbiamo scoprire e valorizzare. Questo concetto per me è fondamentale. Scegliere di utilizzare i materiali di scarto non è solamente una scelta ecologica – anche – è soprattutto un’opportunità per riflettere su ciò che ci circonda e capire cosa ha da raccontarci della nostra vita e della nostra storia. É importante fermarsi a riflettere su queste cose, ci fanno capire i valori e cosa possiamo migliorare per il futuro. Per la mia opera è molto importante l’idea di “chance”. Quando cammino per strada, vedo un oggetto che qualcuno sta buttando via capita che io lo usi come spunto per la mia ricerca artistica. Con le bucce degli agrumi invece è una cosa che ho sempre fatto e che continuo a fare. É un lavoro che richiede tempo e precisione. Ovviamente queste tecniche sono tutte nuove per me, non so le opere che fine faranno tra alcuni anni, se moriranno o no. Per esempio ho imparato che se metto un materiale specifico sulle bucce quando sono in essiccazione poi il colore rimane vivo, se invece non la metto si ossida e diventa più scura. Questo per farti capire che è un’opera viva, come un’essere umano, che cambia nel tempo e ci fa ricordare anche il nostro corpo.
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D: Nel tuo lavoro sono presenti diverse tecniche che immagino sia necessario saper padroneggiare alla perfezione per riuscire ad ottenere un risultato preciso ed impattante come il tuo. Quali sono gli step che devi seguire dalla nascita all’esposizione di un’opera?
R: Con la mia opera diciamo che ci vuole sempre tempo per capire che fine farà. Per esempio i lavori che facevo da piccola sono ancora a casa dei miei e stanno ancora bene, anche se ho usato tutt’altro processo per crearli. Io sono interessata a spingere i materiali al massimo del loro potenziale. Negli Stati Uniti usavo una colla specifica per i lavori d’archivio, che aiutata al clima secco, mi aiutava al mantenimento delle bucce. In Italia uso invece il processo di conceria, ho collaborato con il Polo Tecnologico Conciario (PO.TE.CO) a Castelfranco di Sotto. Era una cosa incredibile collaborare con loro perché abbiamo fatto tantissime verifiche per capire cosa funzionasse e cosa no. Abbiamo dovuto usare i prodotti chimici – che non fanno male all’ambiente – e altri invece che si usano in ambito medico, il tutto mescolato insieme ad altri prodotti, per creare un processo che però non posso rivelare perché è un segreto! La conservazione delle bucce invece dipende da tanti fattori. Per esempio quando conservo le bucce in casa mia ho imparato che devo sempre metterle tra qualche foglio di Scottex perché se no prendono troppa umidità.
D: Quale progetto hai deciso di portare e proporre nello spazio di Latte Project Space?
R: Il progetto a cui sto lavorando per Francesca fa parte di una serie di “cascate”. Ho preso ispirazione dai giardini rinascimentali e la presenza degli agrumi in essi. Ho deciso di usare la cascata perché richiama alcuni elementi dei giardini rinascimentali: le fontane, grotte e ruscelli. Un modo per legare il passato al presente. In questa opera nello specifico ho fatto anche uso di altre tecniche. Ho aggiunto la tintura rossa,che aveva un valore alto nel rinascimento, per creare queste strisce di diverse lunghezze.
Con questa mostra volevo creare questo rapporto con il passato, presente e crescita, in modo da farci riflette anche sulla sostenibilità. Quando pensiamo ai nostri valori culturali dobbiamo sempre chiederci da dove vengano, questo anche per riflettere sul futuro, perché se non pensiamo di utilizzare i materiali in un altro modo, possiamo trovare la chiave per avere un futuro più sostenibile.
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D: Utilizzando principalmente materiali organici nel tuo lavoro è probabile che, nel corso del tempo, possano subire dei cambiamenti per esempio: le dimensioni, la composizione e il colore. In questo caso avremo davanti un’opera diversa rispetto alla precedente. Come valuti questo cambiamento nell’opera? Racconterà una storia diversa o racconterà sempre la stessa storia ma con più esperienza?
R: Questa è una bella domanda. Secondo me racconterà la stessa storia ma con più esperienza perché sarà più potente. Mi prendo un grande rischio per fare questo lavoro, ma perché c’è un valore nell’assumersi i rischi, perciò mi interessa. Ci sarà più esperienza che potrà arricchire l’esperienza stessa dell’opera e la sua storia. A livello storico e personale.
D: Chiudiamo l’intervista con la prima domanda che, spontaneamente, mi è sorta quando ho visto il tuo lavoro per la prima volta. Ma come ci si procura così tante bucce d’arancia? Ma soprattutto c’è un modo specifico per tagliarle correttamente?
R: Solitamente mi chiedono se abbia mangiato io tutte quelle arance! Allora diciamo che io vado da diversi bar che mi lasciano gentilmente le bucce in avanzo per le spremute. Le arance devono essere tagliate a metà se no poi è troppo difficile trattarle, poi bisogna pulire dalla parte bianca interne. Un lavoro molto scrupoloso in cui sono molto brava! Ci vuole pazienza. Molti amici vogliono aiutarmi ma non ce la fanno perché ci vuole precisione e sensibilità manuale.
Nelle settimane tra il 14 e il 25 maggio è andata in scena a Faenza la mostra “Il dizionario della pelle”. Un progetto inaugurato inizialmente presso la Galleria Comunale della Molinella, poi proseguito nello spazio espositivo di Latte Project Space. Curato integralmente da Francesca Cerfeda.
Sabato 21 maggio siamo stati ospiti di Francesca che, dopo la mostra inaugurale di settembre 2021 “Che la festa cominci”, ci ha nuovamente invitati per dare un’occhiata al suo nuovo progetto.
Latte Project strikes again
Nelle settimane tra il 14 e il 25 maggio è andata in scena a Faenza la mostra “Il dizionario della pelle”. Un progetto inaugurato inizialmente presso la Galleria Comunale della Molinella, poi proseguito nello spazio espositivo di Latte Project Space. Curato integralmente da Francesca Cerfeda.
Sabato 21 maggio siamo stati ospiti di Francesca che, dopo la mostra inaugurale di settembre 2021 “Che la festa cominci”, ci ha nuovamente invitati per dare un’occhiata al suo nuovo progetto.
La mostra si presenta come una grande collettiva, che mette in relazione tanti artisti, ognuno con background artistico-culturale di notevole spessore.
Quando si affrontano progetti di questo tipo il rischio è sempre quello di trovarsi davanti una serie di lavori impattati e molto forti, capaci però di raccontare “solamente” la loro storia e di non offrire il proprio ascolto a quella degli altri. Non è questo il caso. Francesca è stata bravissima nella selezione dei singoli artisti, una selezione attenta, silenziosa e non invadente, capace di mettere in dialogo opere di stili diametralmente opposti tra loro come se fossero nate per essere esposte l’una a fianco all’altra. Il filo conduttore che lega ogni lavoro di questo percorso è appunto la “pelle”, una matrice fisica, materna, capace di creare un bellissimo viaggio dove ogni artista accompagna personalmente il visitatore all’opera successiva raccontando un pezzettino del proprio vissuto. Il dizionario della pelle è stata dunque una mostra sensibile, capace di comunicare senza troppe parole, che guida con gli occhi e con le mani nei solchi che il tempo imprime nella pelle, unica e uguale, di ciascuno di noi.
Nella bella chiacchierata che abbiamo fatto con Francesca la cosa che più mi ha colpito è stata che questo progetto risale a una sua personale suggestione di ormai cinque anni fa. Mi ha affascinato molto la pazienza, la costanza e la dedizione con cui lentamente la mostra ha preso forma nel tempo costruendo, artista dopo artista, opera dopo opera, gli strati di pelle che hanno formato il risultato finale esposto.
Ringraziamo quindi Francesca per essere stata ancora una perfetta padrona di casa e non vediamo l’ora di tornare a vedere che cosa Latte Project Space avrà in serbo per questi prossimi mesi.
Hanno esposto le artiste Giulia Lanza, Caterina Morigi, Giulia Poppi & Arianna Zama. Mentre L’opening è stato introdotto dalla performance “Awkward Integrities” dell’Artista Andisheh Bagherzadeh – alla Galleria Comunale della Molinella.
Questo mese Bulb si cala in un’atmosfera molto intima e vi mostra da vicino il lavoro di Arte Cannibale, artista visiva e performer, che per il poster di Gennaio ci ha stregato col suo contributo.
Questo mese Bulb si cala in un’atmosfera molto intima e vi mostra da vicino il lavoro di Arte Cannibale, artista visiva e performer, che per il poster di Gennaio ci ha stregato col suo contributo.
“esplorare i temi della memoria, del corpo e dell’archiviazione come atto performativo di ricerca e di attenta autoanalisi, attraverso il quale indagare e confrontare sentimenti e tracce del proprio vissuto”
Il dittico che vi proponiamo è un estratto da una serie di fotografie dal sapore intimistico che si addentrano nell’archivio dei ricordi dell’artista e si trasformano in una profonda riflessione alla ricerca del Sé. La formula del dittico è uno strumento che rimanda alla definizione greca dei manufatti, composti in modo da piegarsi in due emulando un libro. Da qui il significato intimo del diario, che con una narrazione quasi innata, mette in dialogo due momenti anche scollegati tra loro del vissuto dell’artista e ne crea una nuova forma, sottraendo gli scatti dal loro significato iniziale.
Memoria, corpo, testimonianza, questi i temi su cui Arte Cannibale sperimenta nuovi sguardi, quasi come un esercizio di consapevolezza, ma anche il diritto di poter cambiare idea, ed evolversi come cambia il tempo per non rimanere ancorata a una visione démodé degli eventi.
Altri estratti dalla serie “And I suffer very well”
Arte Cannibale
Classe ’97, artista e performer laureata in scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna, frequenta la specialistica in Studi Performativi e di Genere allo Iuav. La sua poetica è strettamente legata all’attivismo, all’esperienza di genere e all’identità. Ha curato e auto-prodotto alcune fanzine, partecipando a progetti e mostre collettive (Yogurt Magazine, Not my Body, Emotional Fuckers). Nel 2016 ha fondato la pagina Instagram, «Artecannibale», il cui scopo è quello di approfondire il rapporto tra arte, corpi politici e social media.
Eron, “Forever and Ever, nei secoli dei secoli”, pittura spray, 2010, San Martino in Riparotta (Rimini)
“THE ROMAGNOLO WAS LACKING”
Terra di teste eccentriche, di smanie nello sguardo, di sangue bulicante. Cuori irregolari, bestie rare. Mattoidi, avrebbe forse detto Lombroso. Cervelli fosforici, iperattivi, sempre in gestazione.
Insomma terra di poeti.
Censirli, anche solo contarli, sarebbe un’impresa. Specie per gli ultimi anni, che hanno visto emergere non pochi validi poeti, giovani e giovanissimi.
Per forza di cosa, quindi, questo articolo si limiterà ad aprire una breccia – anzi una crepa.
Infatti, in qualunque modo la si cerchi di agguantare, la materia sguscia via come un’anguilla di Comacchio, si imbosca con furia cinghialesca o sparge ovunque i suoi aculei di istrice. L’alta concentrazione di autori e la loro irriducibile eterogeneità sconsigliano qualunque tentativo tassonomico.
La possibilità di assestare un primo colpo di machete nella boscaglia, tuttavia, ce la offre Pound. Si tratta certamente di un appiglio arbitrario, ma suggestivo. Così l’alfiere del modernismo inizia il trentottesimo dei suoi labirintici Cantos:
And God the Father Eternal (Boja d’un Dio!) Having made all things he dc think of, felt yet That something was lacking, and thought Still more, and reflected that The Romagnolo was lacking, and Stamped with his foot in the mud and Up comes the Romagnolo: «Gard, yeh bloudy ’angman! It’s me.»
Il Padreterno (Boja d’un Dio!) Fatta ogni cosa saltatagli In mente sentì Manca ancora qualcosa E pensandoci s’accorse Mancare il Romagnolo. Pestò il piede nel fango E fuori saltò il Romagnolo: «Dio boja, eccomi qua.» (Ezra Pound, Cantos XXXVIII 1-9)
Di seguito i versi di Aldo Spallicci (1886-1973) rinnovati e ricuciti dal rapsodo americano:
E’ Signor, fat e’ mond, e’ va un pô in zir e cun San Pir e’ pasa dó parôl; e intant ch’j è int una presa, u i fa San Pir: «La Rumagna t’l’é fata, e e’ rumagnôl?U i vô dla zenta sora a sti cantir, t’a n’vré zà fé la mama senza e’ fiôl?». «Me a t’e’ farò, mo l’ha dal brot manir, e a j ho fed ch’u n’gni azuva gnianca al scôl!».E’ dasé ’d chilz par tëra cun un pè e e’ fasé saltê fura ilè d’impët e’ vigliacaz de’ rumagnôl spudé.In mangh ’d camisa, svidurê int e’ pét, un capalcìn rudê coma un fator: «A sò iqua me, ciò, boia de’ S… !».
Il Signore, fatto il mondo, va un po’ in giro e con San Pietro scambia due parole, e mentre sono in un podere, gli fa San Pietro: “La Romagna l’hai fatta, e il romagnolo? Ci vuol gente sopra questi campi, non vorrai mica fare la mamma senza il figlio?” “Io te lo farò, ma ha brutte maniere, e credo che non gli giovi nemmeno la scuola”. Dette un calcio per terra con un piede e fece uscir fuori lì dirimpetto il vigliaccaccio del romagnolo sputato. In maniche di camicia, sbottonato sul petto, un cappellaccio a ruota come un fattore; “Sono qua io, allora, boia del S….!” (Aldo Spallici, E’ rumagnùl)
Da qui partiremo.
Dalla sacralità tutta profana, dal barbaro vitalismo, dalla concretezza visionaria. Dalle mani che non sanno stare ferme, dalle bocche che non sanno stare chiuse. Ma anche – è il rovescio della medaglia – dalla maschera dannata, dall’indole ferina, lunare.
Insomma dall’individuo che rivendica e proclama spudoratamente la sua esistenza:
La storia del mondo è la storia di temperamenti in contrapposizione. […] La civiltà moderna proviene dall’Italia, dall’Italia del Rinascimento [innanzitutto la Rimini di Sigismondo e la Romagna del Valentino – N.d.A.], la prima nazione che ruppe con il dogmatismo aquinate e proclamò l’individuo; rispettò la personalità. Questo brilla ancora nel «Così son io!» [Cfr. il poundiano-spallicciano “«Gard, yeh bloudy ’angman! It’s me.»/«Dio boja, eccomi qua.»”] dell’italiano comune quando gli viene chiesto il motivo delle sue azioni.
(Ezra Pound, Provincialismo, il nemico, 1917)
Lo si farà senza pretese di oggettività o sistematicità, nel tentativo – per forza di cosa riduttivo e parziale – di indagare in poesia quella che è forse la più evidente e peculiare fra le tante anime delle Romagna. Quella di cui il Padreterno, quasi desideroso di creare il suo bestemmiatore (la sua nemesi in miniatura, folletto-demiurgo che gli tenga testa in quanto a cosmogonie, rovesciamenti e diluvi universali), sente prepotentemente la mancanza. Quella di cui il mondo intero, sembra suggerire l’Omero del Novecento, patisce l’assenza:
The Romagnolo was lacking.
UN PROFANO “FARE SACRO”
Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell’enigma delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida là dove si perde il grido di Francesca: dalla mia fanciullezza una voce liturgica risuonava in preghiera lenta e commossa: e tu da quel ritmo sacro a me commosso sorgevi, già inquieto di vaste pianure, di lontani miracolosi destini: risveglia la mia speranza sull’infinito della pianura o del mare sentendo aleggiare un soffio di grazia: nobiltà carnale e dorata, profondità dorata degli occhi: guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana antica Romagna. (Dino Campana, La Verna, Ritorno.)
Sin dai Canti orfici di Dino Campana, c’è in non pochi autori romagnoli, come del resto in molta poesia contemporanea, la ricerca di una sacralità premoderna, ancestrale, pagana. Una sacralità che non di rado – come suggerisce l’ambiguità del termine latino sacer – affonda le sue radici nel profano, nello sconsacrato, nel quotidiano.
Eminentemente religiosa la poesia di Rosita Copioli (Riccione, 1948), foriera di uno sguardo e di una voce che scelgono e legano – il richiamo alla radice di religio pare quanto mai appropriato – nomi, icone e misteri (da intendersi ovviamente in senso tecnico rituale) del vissuto, della storia, della tradizione filosofica, esoterica e artistica. È una poesia tutta moderna e insieme tutta antica, innervata da una favilla sacerdotale, druidica, eppure mai anacronistica. Una poesia musiva, bizantina, che non teme l’astrazione, le forme ieratiche, marziali, eteree, l’ornamento (mai forma vuota, sempre forma mentis). Una scrittura che, dall’esordio del 1979 (Splendida lumina solis, Forum) fino a Le acque della mente (Mondadori 2016), passando per Il postino fedele (Mondadori 2008), non teme di confrontarsi con la preziosità dell’oro, lo splendore icario del sole, e l’altisonanza di un dettato solenne. Così in Beltà, riluce la sacralità del profano: “tutto ritorna”, nietzschianamente, irrompono sinestesie e corrispondenze, “dietro le siepi” si accendono “gli occhi dei nostri paradisi”, il tempo si fa concreto e vivo come lievito (“l’anno fermenta nelle case”). Animata da un’istanza alchemica, che respinge ogni reificazione, la parola non arretra di fronte all’enigma, ma vi si presenta davanti nuda e senza falsi pudori. Ne deriva una sorta di caleidoscopicosincretismo in cui si incontrano fiamme pentecostali, la “vite frondosa” di Bacco e il satori buddista (“una stagione non nata, la stagione che non / volge né ritorna, il passo senza misura / di anno senz’anni, e semprevivi”).
Guarda, tutto ritorna, anche i segni nel muro e dietro le siepi gli occhi dei nostri paradisi senza ragione d’esserci volgono a tornare, ritornano per non dimentica, quanto trae ciascuno il suo piacere – e adspice: anche se a me tuttavia: perché la sera volge, e l’anno fermenta nelle case, e si dispongono tutti ad uscire i ragazzi sulle strade, e scendono tutti per il loro amore: chi si guarda e chi, fuori del buio, nella luce si prende e gli occhi puntati nel cuore della luce: il silenzio brillante della luce, l’ascolto. Chi non si è accorto che non c’è tregua, e che incessante brucia, ciascuno a suo piacere. Così, dopo che ha visto, ciascuno la sua luce, brucia la propria insania nell’ombra, e riesce, nel lucore, come vite frondosa. Mentre parliamo il silenzio volge nella sera et sol crescentes descedens duplicat umbras: e tuttavia brucia, e richiama una stagione non nata, la stagione che non volge né ritorna, il passo senza misura, di anno senz’anni, e semprevivi, piante perenni, che come succhia il tempo le sue linfe gonfie si gettino al rigoglio dell’amore che brucia.
(da Splendida lumina solis.)
Liturgica, sebbene in senso diverso, è anche la poesia Mariangela Gualtieri (Cesena, 1951), che proviene dal teatro e al teatro ritorna. Unteatro inteso in senso religioso, alla maniera greca, come spazio pubblico (circolare, comunitario, consacrato), altare di un’interiorità collettiva, dove la parola, amplificata dal suo legame viscerale con il suono, la musica, il gesto e la danza, si fa vaso di un pensiero in grado di ospitare l’alterità. Rito sonoro, bagno acustico, immersione battesimale che rende possibile il dialogo fra il dire ispirato del poeta e l’ascolto ugualmente ispirato del pubblico. “Rito è in fondo una manovra che carica i simboli”, afferma la Gualtieri, “e in questo caso i simboli sono le parole.” Maneggiare simboli, quindi, sporcarsi le mani, tracciare segni. Insomma poesia come pomerio, come geometria della rivelazione, perimetro sacro e insieme calpestabile. Non un “essere sacro”, ma un “fare sacro”, con tutta la portata concreta e pragmatica che il fare porta con sé.
Ne sgorga uno slancio vitale spudorato, evangelico, che non fugge il lato dionisiaco, violento e capovolgente, dello stare al mondo:
Anch’io voglio tutte le sbandate essere viva fino allo scortico essere tavolo pietra bestiale essere bucare la vita coi morsi infilare le mani in suo pulsare di vita scavare la vita scrostarla sfondarla spericolarla battermi con lei fino ai suoi sigilli. Per amore – per amore – tutto per amore.
(da Solenne, Fuoco Centrale, Einaudi 2003).
Tutta la poesia della Gualtieri è un continuo cantico creaturarum (ma anche creatorum et creationum), che scova e ritrae le anime animali e vegetali dell’uomo, in forma “di cagna, di passero stanco, di bruco, di mosca” (da Canto di ferro, Paesaggio con fratello rotto, Luca Sossella, 2007). Che osserva, dettaglia e ripete le operazioni di artigiano con cui si mette mano alla vita interiore.
Accanto alla pulsione mammifera e cacciatrice-raccoglitrice, c’è un sentimento pagano, di villaggio (pagus appunto), gentile (anche nel senso etimologico di gens – si pensi alla raccolta d’esordio Antenata, Crocetti, 1992). Sentimento di focolari (e Lari), di tana, di utero, di membrana cellulare:
Certi alberi vicini alle case sostano in una pace inclinata come indicando come chiamando noi, gli inquieti, i distratti abitatori del mondo. Certi alberi stanno pazientemente. Vicini alle camere nostre dove gridiamo a volte di uno stare insieme che ha dentro la tempesta noi che devastiamo facce care per una legge di pianto.
(da Naturale sconosciuto, Bestia di Gioia, Einaudi 2010.)
Sacrale, di una sacralità concreta, giornaliera,indissolubilmente legata ai genii locorum (e qui i loci sono innanzitutto quelli d’entroterra riminese) e ai penates (nel senso etimologico di penus, “nutrimento, provvista”), è la poesia di Luca Nicoletti (1961, Riccione). Ideatore e curatore di letture, mostre e rassegne, ha pubblicato tre raccolte di poesia: L’essenza del mosaico (Pazzini, 2006), Comprensione del crepuscolo (Passigli, 2015) e Il paese nascosto (Italic Pequod, 2019). Il fuoco di Vesta su cui Nicoletti arroventa la sua penna è l’intima connessione tra parola e immagine, testimoniata dalla madre Rosita, fotografa, e praticata con laboriosità benedettina in un continuo esercizio di illustrazione, da intendersi come lustrazione, ovvero purificazione, decantazione, chiarificazione del sentimento, del pensiero e del ricordo:
Gennaio pare ritagliarsi, in via definitiva l’immagine distesa sulla luce chiara che ci accoglie, senza grandi clamori, in una sensazione meridiana ritrovata nella stessa distanza, la piccola vista parziale, e consumata, di questa finestra. Le intermittenze dell’albero di Natale, fino a ieri, ci avevano portato su un sentiero diverso, l’attento monolite dello spazio famigliare inventa di continuo espedienti per non farci pensare alle vere oscurità del bosco. Il breve periodo del dopo albero è cominciato, e questo calmo silenzio anticipa l’avvento di una luce diversa, le ombre giganti si accorciano di giorno in giorno, il loro mondo orizzontale adesso ha fretta.
(Da Il paese nascosto.)
È un senso del sacro che, come si vede, sgorga dal fontanile dell’esperienza personale, della dimensione domestica e del paesaggio (urbano e naturale), ma in un’ottica postromantica che attraversa Pascoli e, per così dire, lo “aggiorna”, alla luce della frammentazione accelerata dell’io e del mondo di oggi. Sacra è infine, per Nicoletti, “un’idea umanistica e civile della vita e della storia [e ovviamente della poesia e dell’arte – N.d.A.], proprio quella che pare oggi così compromessa nel mondo contemporaneo” – così Giancarlo Pontiggia nella prefazione all’ultima raccolta – “in una prospettiva di domestica chiarità e di umile verità del cuore, senza nondimeno dimenticare quella cifra di ulteriorità, di indecifrabilità della condizione umana.”
Sacra, ma decisamente più notturna, ctonia, sospesa nella penombra di rito psicopompo, è la voce di Martina Abbondanza (1993, Cesena – Il giorno tutto, Landolfi 2016; Le ombre sanno esattamente dove stare, La Vita Felice, in uscita). Con i suoi versi asciutti e taglienti come un’alba nordica, sillaba oracoli che chiedono di essere inverati. Animata da un’inquietudine luziana, si muove senza timore, con una fredda pietas, fra “le ombre che non hanno obbedito”. Ombre limbicole, pagane, intrappolate nell’attesa di una redenzione che sembra continuare ad attardarsi. E intanto prosegue la ricerca di una parziale ma irrinunciabile salvezza negli sprazzi veridici del quotidiano, quando, finalmente individuata, una particola di realtà si staglia contro i giorni falsi e bugiardi. La Abbondanza inaugura una mantica dell’ombra e dell’amore che vuole tenere insieme la fragile materia dell’esistenza e i desideri perlungo silenzio fiochi che portiamo dentro. Come Proba, prima poetessa cristiana, che nel suo centone virgiliano chiese ai versi del propheta nescius di cantare un epos evangelico, così la Abbondanza non desiste dal tentativo di tradurre “i lamenti / delle anime che non riescono a passare”.
Non ho imparato a tremare come si deve.
Io so il tuo fianco andare via al mattino tra i fiori finti nei vasi.
Certi amori devono stare nel buio dei portici ma poi ritornano, senza stagioni.
(da Il giorno tutto)
Infine sacrale, di una sacralità oceanica, taumaturgica, junghiana, è la poesia di Ivonne Mussoni (Rimini 1994), che dopo l’esordio con la plaquette A un quarto d’ora d’universo (Heket, 2013) ha pubblicato per Giulio Perrone La corrente delle cose ultime (2017) e Sirene (2021).
La sua è una scrittura che non teme di confrontarsi con i grandi temi del destino, della perdita e della conoscenza né con gli archetipi mitologici e antropologici. È una poesia duplice, ibrida, che mescola natura umana e animale, terrestre e marina, celeste e infernale, luce e ombra, sacro e profano:
Eravamo quasi donne nel poco che mancava lucertole, uccelli, meduse, tempeste, orsi e serpenti. La cosa più vicina all’essere perfette. Era quel drastico esserne vicine a farci sentire più forte il bene e così il dolore, a qualcuno è permesso l’inciampo del petto
l’errore
ma a quelli di tutta altra specie più lontani dal silenzio smisurato dei fondali.
(da Sirene.)
Una poesia che non nega il lato abissale, vertiginoso della realtà, ma che sente la necessità di fecondare questo buio con la luce e l’aria del canto e dello sguardo:
C’è una prima colpa nel perdere la propria giovinezza, quella colpa per sempre ci somiglia. È tutto un ripetersi il resto da lì si lascia andare ogni cosa, le gambe, le mani tranne la voce più forte di prima per dire, alla fine, perdono, chi siamo. (da Sirene.)
Michele Ghiotti (23 novembre 1989) è nato a San Marino, dove vive e insegna Lettere al Centro di Formazione Professionale. Suoi versi sono stati selezionati dallo scrittore e poeta Davide Rondoni per il concorso In che verso va il mondo e dal poeta e critico milanese Maurizio Cucchi per La bottega di Poesia de «La Repubblica» (ed. Milano). Sulle riviste «Crack», «Carie» e «Retabloid» sono apparsi due suoi racconti brevi, Diario metempsicotico e A volte l’aria è più solida del cemento. Recentemente ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie Preistoria primavera (Italic Pequod, 2021)
L’edizione di Novembre per i lettori di Bulb vi porterà in uno scenario insolito! L’artista Chiara Chemi, in arte TheDollMaker è la protagonista del poster di questo mese e ci propone un estratto dalla sua serie di illustrazioni sul mondo delle MMA. Sbem!
LGBTQMMA – Inchiostro su carta. Rivisitazione dell’iconica foto rappresentante l’epilogo del match tra Muhammad Ali e Sonny Liston.
L’edizione di Novembre per i lettori di Bulb vi porterà in uno scenario insolito! L’artista Chiara Chemi, in arte TheDollMaker è la protagonista del poster di questo mese e ci propone un estratto dalla sua serie di illustrazioni sul mondo delle MMA. Sbem!
Il lavoro è un tributo al celebre scatto di Neil Leifer al match di boxe che vide nel 1965 scontrarsi Muhammad Ali e Sonny Liston.
Con la serie di illustrazioni da cui è estratto il poster di Novembre, TheDollMaker ci mostra un nuovo modo per declinare l’immaginario delle arti marziali nelle sfumature di un simbolismo ironico e controverso, quasi perturbante; e di inserirlo nel contesto della lotta femminista con uno stile unico che ammicca alla underground comics e all’art brut.
La decostruzione sembra l’unico processo necessario per studiare le abitudini di una generazione che non si chiede più il perchè delle cose ma agisce perchè “così si fa”; ciò si manifesta attraverso l’espressione della grettezza e della rabbia e la demolizione degli stereotipi del femminile.
Altri estratti dalla serie
TheDollMaker
Visual Artist attiva soprattutto nel settore musicale, ha realizzato artwork e videoclip, presentati su importanti riviste (tra cui Repubblica, Rumore, Indie-eye, New Noise Magazine) e in festival cinematografici, tra cui il prestigioso Asolo Art Film Festival. Il critico e regista Michele Faggi le ha dedicato alcuni speciali e interviste. A 16 anni vince un concorso Panini Comics e resta in contatto con l’editor Elena Zanzi; ma, folgorata dall’audiovisivo, si specializza in regia, scrittura e montaggio per il cinema, esplorando poi anche ogni ambito dell’animazione (ha appreso la puppet-animation con Studio Croma e realizzato video in animazione tradizionale e digitale per etichette discografiche). Come operatrice video, regista e storyboard artist ha lavorato anche per Tv8, Rocker Tv, Rezophonic e con ONE Championship, promozione mondiale di MMA. Talvolta espone in galleria. Ig: thedollmaker_chemi
Spazio Labo’ centro di fotografia ospita in questi giorni la mostra personale I MADE THEM RUN AWAY dell’artista visiva Martina Zanin.
I Made Them Run Away
Spazio Labo’ centro di fotografia ospita in questi giorni la mostra personale I MADE THEM RUN AWAY dell’artista visiva Martina Zanin. Il tema dell’esposizione è il rapporto che l’artista ha con sua madre Giulia. Un rapporto ricostruito attraverso un vero e proprio archivio di ricordi, ripercorso e assemblato tra foto di famiglia testimoni di una figura materna resa più umana che madre.
La prima cosa che si nota è che nelle fotografie c’è sempre una porzione strappata via, simbolo e rappresentazione di rapporti lacerati, di relazioni che vedono Giulia come unica superstite. Partendo dalla presa di coscienza che nessuno di quegli uomini ha lasciato il segno nelle loro vite, Martina Zanin introduce il concetto del MADE THEM RUN AWAY suggerendo l’ipotesi che lei e sua mamma hanno fatto scappare via questi uomini dalla loro famiglia.
Parte della mostra è dedicata anche gli scritti della madre: Lettere a un uomo mai avuto. Una raccolta di lettere a cuore aperto in cui lei fantastica sull’ipotesi delle sue relazioni interrotte, proiettate nella stanza simulando graficamenre l’avazare della scrittura.
L’elemento che unisce tutti questi materiali sono le fotografie di Martina: rielaborazioni di scene di vita quotidiana e aneddoti della sua infanzia che ha cercato di tramutare in qualcosa di visibile, in modo da investigare nel profondo quell’oscura presenza maschile che è stata per lei sempre un mistero.
Il viaggio di I MADE THEM RUN AWAY mostra come Martina Zanin sia un’artista capace di destreggiarsi in diversi ambiti delle arti visive, dimostrando che nell’arte la sincerità e l’autenticità sono ancora valori che fanno la differenza.