Tu che lo sai, dimmi cos’è essere luce in questo lamento che arriva da lontano.
Essere luce nel fragore nel desiderio, nella speranza quando la vita si schianta.
Dimmi il peccato nella mano tesa, nella lingua del corpo che si fa canto.
*
Per Camille Claudel
I
C’è un punto nel sul collo tra cuore e clavicola dove si raccolgono le lacrime.
Nel solco appena accennato ristagna, fa male. Se scavi in quel punto, Camille comprendi una figura di madre il suo corpo, gli occhi più grandi il dolore non detto le mani incrociate sulle ginocchia.
*
La falena tigre ha gli occhi della notte figura fragile venuta in sogno vestale della consolazione. Muta sulla parete della stanza lei è testimone degli amanti la semina, il canto, l’incendio delle ali.
*
Se tocchi la sottile membrana che mi avvolge io sono ancora bozzolo bozzolo che esplode sono farfalla ali che impazzano sulla schiena.
Rossella Renzi, insegnante, scrittrice, poetessa, ha pubblicato in versi I giorni dell’acqua (L’arcolaio 2009), Il seme del giorno (L’arcolaio 2015), Dare il nome alle cose (Minerva 2018), Disadorna (peQuod 2022); il saggio Dire fare sbocciare. Laboratori di poesia a scuola (E-book per Pordenonelegge 2018). È redattrice di «Argo» e di «Poesia del nostro tempo». Per la casa editrice Argolibri dirige la collana “Territori” per cui ha curato il volume Argo 2020 L’Europa dei poeti. Ha curato, insieme ad altri critici, L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie e numerosi Annuari di poesia. Conduce “Novissime, podcast mensile di poesia e letteratura” insieme a Lello Voce. Con musicisti e artisti di vario tipo realizza progetti che indagano il rapporto tra la poesia e le diverse forme espressive. Con l’Associazione Independent Poetry organizza eventi letterari. Si è laureata nel 2003 all’Alma Mater di Bologna col Professor Alberto Bertoni, con una tesi su Eugenio Montale e la poesia del secondo Novecento.
Sei arrivato silenzio ma in fondo ci sei sempre stato. Ti ho imparato così al buio dentro al pieno dentro al vuoto in un’alba di gelo non ancora nata.
Sotto l’orizzonte ad attendermi il tenace e severo abbraccio di un tempo aspro dalla luna opposta in terra di Ananke.
Iniziata sui muri delle tue stazioni l’itinerario del viaggio l’ho imparato così al buio con l’occhio bambino spalancato sopra l’orizzonte.
E sì su qualche muro ho sbattuto le finestre al pianto recitando la paura pedaggio equo alla felicità che copre il dolore.
*
Viaggio
Regna l’assenza come in una lunga notte artica quando il sole non sorge per settimane.
Regna l’assenza del calore di ogni vincolo la transumanza del mio cuore ricomincia mentre un vento gelido passeggia senza identità sul vuoto.
L’assenza profuma di dolore il mio sentiero mentre tramortisce e divora ogni già ebbra traccia.
Camaleontici sgabuzzini come sacri sudari mi offrono scollacciate memorie.
Perché mi fissate polifemiche da dentro la ciotola del dispetto legate ancora a bui rinneghi?
I. Errani, In terra di Ananke, Dialoghi Edizioni
Guardo oltre il fuoco del mio respiro mentre appesa alla porta del futuro il tintinnìo della resa mi sveglia lo sguardo.
E l’assenza come in un’alba boreale già non mi pare più così gelida.
*
Oltre quel muro
Ho scelto di incappucciare il mio già scheggiato cuore di mangiare brindare piangere ridere danzare con la tua maschera dai veri spartiti nascosti accanto alla siepe di un sogno
per attraversare un tempo con te.
Ho scelto l’affanno trascinando le linee del mio volto interiore a scomporsi bisbigliando azzardi amorosi con le tue contraffatte carte dalle riconversioni impossibili battezzate ogni volta da bari caffè
quasi avessi atteso a lungo un tempo con te.
Ho scelto d’incollare la pioggia acida di profetiche parole su occhiali rosa tatuati d’improbabili ti amo insieme all’ultimo coagulo di dignità acciambellata come un gatto sulle finestre dei tuoi palazzi arabescati già di rancorose ragnatele.
Ho scelto come una lupa violata ogni notte per tante notti di leccare sulla tua pelle le mie livide strappate vele dall’ultima pioggia dell’ultimo tuono e di saltare al di la della strada oltre quel muro abbracciata ai miei rossetti ai miei tacchi a spillo al Male solo all’alba del dopo Natale
quasi fosse meno forte il dolore che schiaccia la schiena al cuore.
Ho scelto di non scegliere gli amici dai lindi armadi dai rossi larghi sorrisi dai generosi abbracci dall’improvviso inedito rigore nelle ore più torbide del disonore.
Ho scelto di abbandonare il buio degli occhi umidi della colpa e sola ho preso per mano la paura dalla pancia alla piazza lungo i corridoi di un tribunale giusto ho annusato il fruscio del Male dal ghigno passepartout dall’occhio secco dal profilo di lama.
Ho scelto l’oltre quel muro quasi fosse il tempo di riprendermi le mie vele.
Isabella Errani è nata a Lugo di Romagna (RA) nel 1958 e abita a Bagnacavallo. È stata educatrice di asilo nido e bibliotecaria alla Biblioteca “F. Trisi” di Lugo. Ha partecipato a vari premi letterari nazionali e internazionali di poesia, ricevendo premi, riconoscimenti e menzioni d’onore.
Eron, “Forever and Ever, nei secoli dei secoli”, pittura spray, 2010, San Martino in Riparotta (Rimini)
“THE ROMAGNOLO WAS LACKING”
Terra di teste eccentriche, di smanie nello sguardo, di sangue bulicante. Cuori irregolari, bestie rare. Mattoidi, avrebbe forse detto Lombroso. Cervelli fosforici, iperattivi, sempre in gestazione.
Insomma terra di poeti.
Censirli, anche solo contarli, sarebbe un’impresa. Specie per gli ultimi anni, che hanno visto emergere non pochi validi poeti, giovani e giovanissimi.
Per forza di cosa, quindi, questo articolo si limiterà ad aprire una breccia – anzi una crepa.
Infatti, in qualunque modo la si cerchi di agguantare, la materia sguscia via come un’anguilla di Comacchio, si imbosca con furia cinghialesca o sparge ovunque i suoi aculei di istrice. L’alta concentrazione di autori e la loro irriducibile eterogeneità sconsigliano qualunque tentativo tassonomico.
La possibilità di assestare un primo colpo di machete nella boscaglia, tuttavia, ce la offre Pound. Si tratta certamente di un appiglio arbitrario, ma suggestivo. Così l’alfiere del modernismo inizia il trentottesimo dei suoi labirintici Cantos:
And God the Father Eternal (Boja d’un Dio!) Having made all things he dc think of, felt yet That something was lacking, and thought Still more, and reflected that The Romagnolo was lacking, and Stamped with his foot in the mud and Up comes the Romagnolo: «Gard, yeh bloudy ’angman! It’s me.»
Il Padreterno (Boja d’un Dio!) Fatta ogni cosa saltatagli In mente sentì Manca ancora qualcosa E pensandoci s’accorse Mancare il Romagnolo. Pestò il piede nel fango E fuori saltò il Romagnolo: «Dio boja, eccomi qua.» (Ezra Pound, Cantos XXXVIII 1-9)
Di seguito i versi di Aldo Spallicci (1886-1973) rinnovati e ricuciti dal rapsodo americano:
E’ Signor, fat e’ mond, e’ va un pô in zir e cun San Pir e’ pasa dó parôl; e intant ch’j è int una presa, u i fa San Pir: «La Rumagna t’l’é fata, e e’ rumagnôl?U i vô dla zenta sora a sti cantir, t’a n’vré zà fé la mama senza e’ fiôl?». «Me a t’e’ farò, mo l’ha dal brot manir, e a j ho fed ch’u n’gni azuva gnianca al scôl!».E’ dasé ’d chilz par tëra cun un pè e e’ fasé saltê fura ilè d’impët e’ vigliacaz de’ rumagnôl spudé.In mangh ’d camisa, svidurê int e’ pét, un capalcìn rudê coma un fator: «A sò iqua me, ciò, boia de’ S… !».
Il Signore, fatto il mondo, va un po’ in giro e con San Pietro scambia due parole, e mentre sono in un podere, gli fa San Pietro: “La Romagna l’hai fatta, e il romagnolo? Ci vuol gente sopra questi campi, non vorrai mica fare la mamma senza il figlio?” “Io te lo farò, ma ha brutte maniere, e credo che non gli giovi nemmeno la scuola”. Dette un calcio per terra con un piede e fece uscir fuori lì dirimpetto il vigliaccaccio del romagnolo sputato. In maniche di camicia, sbottonato sul petto, un cappellaccio a ruota come un fattore; “Sono qua io, allora, boia del S….!” (Aldo Spallici, E’ rumagnùl)
Da qui partiremo.
Dalla sacralità tutta profana, dal barbaro vitalismo, dalla concretezza visionaria. Dalle mani che non sanno stare ferme, dalle bocche che non sanno stare chiuse. Ma anche – è il rovescio della medaglia – dalla maschera dannata, dall’indole ferina, lunare.
Insomma dall’individuo che rivendica e proclama spudoratamente la sua esistenza:
La storia del mondo è la storia di temperamenti in contrapposizione. […] La civiltà moderna proviene dall’Italia, dall’Italia del Rinascimento [innanzitutto la Rimini di Sigismondo e la Romagna del Valentino – N.d.A.], la prima nazione che ruppe con il dogmatismo aquinate e proclamò l’individuo; rispettò la personalità. Questo brilla ancora nel «Così son io!» [Cfr. il poundiano-spallicciano “«Gard, yeh bloudy ’angman! It’s me.»/«Dio boja, eccomi qua.»”] dell’italiano comune quando gli viene chiesto il motivo delle sue azioni.
(Ezra Pound, Provincialismo, il nemico, 1917)
Lo si farà senza pretese di oggettività o sistematicità, nel tentativo – per forza di cosa riduttivo e parziale – di indagare in poesia quella che è forse la più evidente e peculiare fra le tante anime delle Romagna. Quella di cui il Padreterno, quasi desideroso di creare il suo bestemmiatore (la sua nemesi in miniatura, folletto-demiurgo che gli tenga testa in quanto a cosmogonie, rovesciamenti e diluvi universali), sente prepotentemente la mancanza. Quella di cui il mondo intero, sembra suggerire l’Omero del Novecento, patisce l’assenza:
The Romagnolo was lacking.
UN PROFANO “FARE SACRO”
Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell’enigma delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida là dove si perde il grido di Francesca: dalla mia fanciullezza una voce liturgica risuonava in preghiera lenta e commossa: e tu da quel ritmo sacro a me commosso sorgevi, già inquieto di vaste pianure, di lontani miracolosi destini: risveglia la mia speranza sull’infinito della pianura o del mare sentendo aleggiare un soffio di grazia: nobiltà carnale e dorata, profondità dorata degli occhi: guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana antica Romagna. (Dino Campana, La Verna, Ritorno.)
Sin dai Canti orfici di Dino Campana, c’è in non pochi autori romagnoli, come del resto in molta poesia contemporanea, la ricerca di una sacralità premoderna, ancestrale, pagana. Una sacralità che non di rado – come suggerisce l’ambiguità del termine latino sacer – affonda le sue radici nel profano, nello sconsacrato, nel quotidiano.
Eminentemente religiosa la poesia di Rosita Copioli (Riccione, 1948), foriera di uno sguardo e di una voce che scelgono e legano – il richiamo alla radice di religio pare quanto mai appropriato – nomi, icone e misteri (da intendersi ovviamente in senso tecnico rituale) del vissuto, della storia, della tradizione filosofica, esoterica e artistica. È una poesia tutta moderna e insieme tutta antica, innervata da una favilla sacerdotale, druidica, eppure mai anacronistica. Una poesia musiva, bizantina, che non teme l’astrazione, le forme ieratiche, marziali, eteree, l’ornamento (mai forma vuota, sempre forma mentis). Una scrittura che, dall’esordio del 1979 (Splendida lumina solis, Forum) fino a Le acque della mente (Mondadori 2016), passando per Il postino fedele (Mondadori 2008), non teme di confrontarsi con la preziosità dell’oro, lo splendore icario del sole, e l’altisonanza di un dettato solenne. Così in Beltà, riluce la sacralità del profano: “tutto ritorna”, nietzschianamente, irrompono sinestesie e corrispondenze, “dietro le siepi” si accendono “gli occhi dei nostri paradisi”, il tempo si fa concreto e vivo come lievito (“l’anno fermenta nelle case”). Animata da un’istanza alchemica, che respinge ogni reificazione, la parola non arretra di fronte all’enigma, ma vi si presenta davanti nuda e senza falsi pudori. Ne deriva una sorta di caleidoscopicosincretismo in cui si incontrano fiamme pentecostali, la “vite frondosa” di Bacco e il satori buddista (“una stagione non nata, la stagione che non / volge né ritorna, il passo senza misura / di anno senz’anni, e semprevivi”).
Guarda, tutto ritorna, anche i segni nel muro e dietro le siepi gli occhi dei nostri paradisi senza ragione d’esserci volgono a tornare, ritornano per non dimentica, quanto trae ciascuno il suo piacere – e adspice: anche se a me tuttavia: perché la sera volge, e l’anno fermenta nelle case, e si dispongono tutti ad uscire i ragazzi sulle strade, e scendono tutti per il loro amore: chi si guarda e chi, fuori del buio, nella luce si prende e gli occhi puntati nel cuore della luce: il silenzio brillante della luce, l’ascolto. Chi non si è accorto che non c’è tregua, e che incessante brucia, ciascuno a suo piacere. Così, dopo che ha visto, ciascuno la sua luce, brucia la propria insania nell’ombra, e riesce, nel lucore, come vite frondosa. Mentre parliamo il silenzio volge nella sera et sol crescentes descedens duplicat umbras: e tuttavia brucia, e richiama una stagione non nata, la stagione che non volge né ritorna, il passo senza misura, di anno senz’anni, e semprevivi, piante perenni, che come succhia il tempo le sue linfe gonfie si gettino al rigoglio dell’amore che brucia.
(da Splendida lumina solis.)
Liturgica, sebbene in senso diverso, è anche la poesia Mariangela Gualtieri (Cesena, 1951), che proviene dal teatro e al teatro ritorna. Unteatro inteso in senso religioso, alla maniera greca, come spazio pubblico (circolare, comunitario, consacrato), altare di un’interiorità collettiva, dove la parola, amplificata dal suo legame viscerale con il suono, la musica, il gesto e la danza, si fa vaso di un pensiero in grado di ospitare l’alterità. Rito sonoro, bagno acustico, immersione battesimale che rende possibile il dialogo fra il dire ispirato del poeta e l’ascolto ugualmente ispirato del pubblico. “Rito è in fondo una manovra che carica i simboli”, afferma la Gualtieri, “e in questo caso i simboli sono le parole.” Maneggiare simboli, quindi, sporcarsi le mani, tracciare segni. Insomma poesia come pomerio, come geometria della rivelazione, perimetro sacro e insieme calpestabile. Non un “essere sacro”, ma un “fare sacro”, con tutta la portata concreta e pragmatica che il fare porta con sé.
Ne sgorga uno slancio vitale spudorato, evangelico, che non fugge il lato dionisiaco, violento e capovolgente, dello stare al mondo:
Anch’io voglio tutte le sbandate essere viva fino allo scortico essere tavolo pietra bestiale essere bucare la vita coi morsi infilare le mani in suo pulsare di vita scavare la vita scrostarla sfondarla spericolarla battermi con lei fino ai suoi sigilli. Per amore – per amore – tutto per amore.
(da Solenne, Fuoco Centrale, Einaudi 2003).
Tutta la poesia della Gualtieri è un continuo cantico creaturarum (ma anche creatorum et creationum), che scova e ritrae le anime animali e vegetali dell’uomo, in forma “di cagna, di passero stanco, di bruco, di mosca” (da Canto di ferro, Paesaggio con fratello rotto, Luca Sossella, 2007). Che osserva, dettaglia e ripete le operazioni di artigiano con cui si mette mano alla vita interiore.
Accanto alla pulsione mammifera e cacciatrice-raccoglitrice, c’è un sentimento pagano, di villaggio (pagus appunto), gentile (anche nel senso etimologico di gens – si pensi alla raccolta d’esordio Antenata, Crocetti, 1992). Sentimento di focolari (e Lari), di tana, di utero, di membrana cellulare:
Certi alberi vicini alle case sostano in una pace inclinata come indicando come chiamando noi, gli inquieti, i distratti abitatori del mondo. Certi alberi stanno pazientemente. Vicini alle camere nostre dove gridiamo a volte di uno stare insieme che ha dentro la tempesta noi che devastiamo facce care per una legge di pianto.
(da Naturale sconosciuto, Bestia di Gioia, Einaudi 2010.)
Sacrale, di una sacralità concreta, giornaliera,indissolubilmente legata ai genii locorum (e qui i loci sono innanzitutto quelli d’entroterra riminese) e ai penates (nel senso etimologico di penus, “nutrimento, provvista”), è la poesia di Luca Nicoletti (1961, Riccione). Ideatore e curatore di letture, mostre e rassegne, ha pubblicato tre raccolte di poesia: L’essenza del mosaico (Pazzini, 2006), Comprensione del crepuscolo (Passigli, 2015) e Il paese nascosto (Italic Pequod, 2019). Il fuoco di Vesta su cui Nicoletti arroventa la sua penna è l’intima connessione tra parola e immagine, testimoniata dalla madre Rosita, fotografa, e praticata con laboriosità benedettina in un continuo esercizio di illustrazione, da intendersi come lustrazione, ovvero purificazione, decantazione, chiarificazione del sentimento, del pensiero e del ricordo:
Gennaio pare ritagliarsi, in via definitiva l’immagine distesa sulla luce chiara che ci accoglie, senza grandi clamori, in una sensazione meridiana ritrovata nella stessa distanza, la piccola vista parziale, e consumata, di questa finestra. Le intermittenze dell’albero di Natale, fino a ieri, ci avevano portato su un sentiero diverso, l’attento monolite dello spazio famigliare inventa di continuo espedienti per non farci pensare alle vere oscurità del bosco. Il breve periodo del dopo albero è cominciato, e questo calmo silenzio anticipa l’avvento di una luce diversa, le ombre giganti si accorciano di giorno in giorno, il loro mondo orizzontale adesso ha fretta.
(Da Il paese nascosto.)
È un senso del sacro che, come si vede, sgorga dal fontanile dell’esperienza personale, della dimensione domestica e del paesaggio (urbano e naturale), ma in un’ottica postromantica che attraversa Pascoli e, per così dire, lo “aggiorna”, alla luce della frammentazione accelerata dell’io e del mondo di oggi. Sacra è infine, per Nicoletti, “un’idea umanistica e civile della vita e della storia [e ovviamente della poesia e dell’arte – N.d.A.], proprio quella che pare oggi così compromessa nel mondo contemporaneo” – così Giancarlo Pontiggia nella prefazione all’ultima raccolta – “in una prospettiva di domestica chiarità e di umile verità del cuore, senza nondimeno dimenticare quella cifra di ulteriorità, di indecifrabilità della condizione umana.”
Sacra, ma decisamente più notturna, ctonia, sospesa nella penombra di rito psicopompo, è la voce di Martina Abbondanza (1993, Cesena – Il giorno tutto, Landolfi 2016; Le ombre sanno esattamente dove stare, La Vita Felice, in uscita). Con i suoi versi asciutti e taglienti come un’alba nordica, sillaba oracoli che chiedono di essere inverati. Animata da un’inquietudine luziana, si muove senza timore, con una fredda pietas, fra “le ombre che non hanno obbedito”. Ombre limbicole, pagane, intrappolate nell’attesa di una redenzione che sembra continuare ad attardarsi. E intanto prosegue la ricerca di una parziale ma irrinunciabile salvezza negli sprazzi veridici del quotidiano, quando, finalmente individuata, una particola di realtà si staglia contro i giorni falsi e bugiardi. La Abbondanza inaugura una mantica dell’ombra e dell’amore che vuole tenere insieme la fragile materia dell’esistenza e i desideri perlungo silenzio fiochi che portiamo dentro. Come Proba, prima poetessa cristiana, che nel suo centone virgiliano chiese ai versi del propheta nescius di cantare un epos evangelico, così la Abbondanza non desiste dal tentativo di tradurre “i lamenti / delle anime che non riescono a passare”.
Non ho imparato a tremare come si deve.
Io so il tuo fianco andare via al mattino tra i fiori finti nei vasi.
Certi amori devono stare nel buio dei portici ma poi ritornano, senza stagioni.
(da Il giorno tutto)
Infine sacrale, di una sacralità oceanica, taumaturgica, junghiana, è la poesia di Ivonne Mussoni (Rimini 1994), che dopo l’esordio con la plaquette A un quarto d’ora d’universo (Heket, 2013) ha pubblicato per Giulio Perrone La corrente delle cose ultime (2017) e Sirene (2021).
La sua è una scrittura che non teme di confrontarsi con i grandi temi del destino, della perdita e della conoscenza né con gli archetipi mitologici e antropologici. È una poesia duplice, ibrida, che mescola natura umana e animale, terrestre e marina, celeste e infernale, luce e ombra, sacro e profano:
Eravamo quasi donne nel poco che mancava lucertole, uccelli, meduse, tempeste, orsi e serpenti. La cosa più vicina all’essere perfette. Era quel drastico esserne vicine a farci sentire più forte il bene e così il dolore, a qualcuno è permesso l’inciampo del petto
l’errore
ma a quelli di tutta altra specie più lontani dal silenzio smisurato dei fondali.
(da Sirene.)
Una poesia che non nega il lato abissale, vertiginoso della realtà, ma che sente la necessità di fecondare questo buio con la luce e l’aria del canto e dello sguardo:
C’è una prima colpa nel perdere la propria giovinezza, quella colpa per sempre ci somiglia. È tutto un ripetersi il resto da lì si lascia andare ogni cosa, le gambe, le mani tranne la voce più forte di prima per dire, alla fine, perdono, chi siamo. (da Sirene.)
Michele Ghiotti (23 novembre 1989) è nato a San Marino, dove vive e insegna Lettere al Centro di Formazione Professionale. Suoi versi sono stati selezionati dallo scrittore e poeta Davide Rondoni per il concorso In che verso va il mondo e dal poeta e critico milanese Maurizio Cucchi per La bottega di Poesia de «La Repubblica» (ed. Milano). Sulle riviste «Crack», «Carie» e «Retabloid» sono apparsi due suoi racconti brevi, Diario metempsicotico e A volte l’aria è più solida del cemento. Recentemente ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie Preistoria primavera (Italic Pequod, 2021)
Ci sono cose che ispirano gioia col solo compiersi della natura. Vorrei fare come vola un uccello – avere quel sentore di creatura.
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Come lucertole che abbiano perso la coda dall’eternità – come il fantasma di noi stessi presentiamo la divinità.
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Ma la cosa più difficile è amarci lontani – sentire che in me hai riposto un tesoro con le tue mani.
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Anche all’ombra delle nostre ferite, nel punto cieco delle cicatrici – non solo sdegnando gli dèi – si impara occultamente la magia.
Sofia Fiorini è nata a Rimini nel 1995 ed è laureata in Italianistica all’università di Bologna. La logica del merito (Interno Poesia, 2017. Premio Violani Landi sezione Poeti Inediti, finalista al Premio Rimini, finalista al Premio Solstizio Opera Prima 2018, secondo premio al Premio Prato 2020) è il suo libro d’esordio. Suoi testi sono inclusi nell’antologia Abitare la parola. Poeti nati negli anni Novanta (Ladolfi, 2019, a cura di Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello). I testi qui presentati sono tratti dal libro inedito La ferita magia.
Conservo la Siviglia dei tuoi sogni: quella della luce in piazza, nei luoghi noti – solo da toccare ancora. Natale e meta del nostro essere nudi e bambini tra queste bolle di sapone; rimaste
in tasca.
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A volte il cibo ti sembra avere lo stesso sapore dello sperma; il che – pensi conferma il tuo credo del durare del seme, del tempo al culmine delle cose. L’alimento che passa e bussa sulla lingua a reclamare la propria forma di stato eterno. Intanto è giorno e tu rimani con le gambe poggiate alla ringhiera di quell’unico spazio esterno che riesci al momento ad abitare. Continui a masticare in un impasto denso di sensi di resti di semi rimasti tra i denti che cerchi in ogni modo di levare. Basterebbe lavarli lavare ciò che si ancora vicino all’angolo del mento.
Ciò che resiste sulla parte della bocca che la tua mano ancora tocca a memoria.
*
Voglio giocare a farti venire avanti – e indietro per un passo; solo a toccarti la punta del naso con fili
d’erba bruciata. Agosto è il tempo dei fantasmi: ogni ombra ha forma storia posto
qui: noi ne sentiamo la pelle.
*
Hai scavato con i denti il letto dell’unghia quasi fosse della fossa il simbolo stretto nel solco dell’ultima terra. Senti intanto detto il tuo nome al reparto surgelati: richiamato all’attenzione, eri entrato solo a comprare funghi – a cercarli immolati per la cena. Ti ritrovi al contrario distratto nella degna anticipazione del lutto: la tua carne a contatto con gli strati proliferati di spore e miceti.
*
E nel tuo tiepido farti lattea simile alla consistenza del riverbero oltre quella finestra
mi chiedi com’è quando parti; e dei ritorni mi sveli il segreto – tu; ché io posso solo rispondere
come unico il mare, amuleto degli uomini, si stenda sulle terre vergini – tra la luna e il nostro senso.
Arianna Vartolo è nata nel 1998 a Roma, dove vive. Studia Lettere Moderne all’Università “La Sapienza” di Roma. L’aiuto a non morire (Cultura e Dintorni Editore, 2019) è la sua opera prima in versi. Compare anche nell’antologia Abitare la parola: poeti nati negli anni Novanta per Giuliano Ladolfi Editore (2019). Di lei è stato scritto, tra gli altri, su ClanDestino, Pangea, Laboratori Poesia. Alcuni suoi inediti sono apparsi su riviste cartacee e online tra cui Atelier e Inverso.
Stracci di mare rosso di tuorlo giallo burdela Marino protegge dal verde il canale, ………………. dammi una piada che possiamo fare l’amore.
*
Ziznatic – II
In un lenzuolo di sabbia ho il mare addosso.
Abbaiano tra castelli e secchielli cani scappati sul canale porto, attratti dai fritti.
Gli amorazzi sono imperlati di sudore mentre i pescatori annottano.
Ogni vela è una quiete di mondo.
Luca Gamberini, Bologna, 21 Aprile 1986, vive a Corticella, formazione umanistica presso l’Università di Bologna – Lettere Moderne (2008), Italianistica (2010), Storia Medievale (2014) – bancario nel quotidiano, scrittore, poeta (“NeoKlassico”, 2014; “Un etto d’amore (Lascio?), 2018) autore di monologhi per il teatro (“Tra Venere e le Sirene”, Teatro degli Angeli, 2018). Ideatore del marchio #PoesiaEspressa®, performance legata alla scrittura istantanea di poesia con la Olivetti Lettera22 che utilizza abitualmente per comporre, si è esibito in diversi musei, gallerie e fiere sia di arte contemporanea (Mambo Museo Arte Moderna di Bologna, Paratissima Art Fair , Galleria, De’ Foscherari, Museo dell’Arte Moderna di Roma, Museo Civico Medievale di Bologna, Museo Civico Archeologico di Bologna, Ferrara Buskers Festival) che librarie (Salone Internazionale del Libro di Torino, Book Pride Milano, BookFest Pisa, Buk Modena, Libreria Acqua alta di Venezia, Grande Libreria Hoepli Milano). Durante i mesi del lockdown ha ideato la serie “Stilemi”, 20 #PoesieEspresse® a confine tra poesia e illustrazione. In primavera, è uscito Pensa che cretino che è l’amore per Mondadori.
Senza titolo 3 Ancora, porto il buio di fronte ai miei occhi.
Lacrima al tempo, fama, il taglio, incide la sabbia di questa spiaggia, il cui mare sfocia nelle mie piccolezze.
Ed il male che sento è eco del vostro silenzio, è riflesso del macabro.
Nelle risacche dei vostri sorrisi, provo ad affogarmi: in bocca solo la sabbia ed il sale del mio tempo.
*
Anniversario
Sorge dalla terra, il tempo per negarsi il tutto della vita.
Si deprime il pensiero, demoliscesi l’anima.
Ed è meraviglia, questo eterno dolore.
*
L’inno dei giovani suicidi Occhi a terra, promessi, all’inferno dai cieli neri; vampiri d’emozioni, ci proviamo a chiamare; e come i deboli, delle menti, solo amaro possiamo donare.
E Dio, ancora, tarda a spiegare, annichilitosi, tra le nuvole, sperar, sembra che, l’affitto d’una vita, lo si debba pagare.
I piccoli rigagnoli, d’acqua, si vadano, a macchiare sulla terra, provando a colorare.
Ignare crescono le rose, sulle nostre carogne e veda l’uomo, che qualcosa sapremo amare.
E i nostri fiati, all’inferno sulle candele, vadano a buffare, peggio della vita, neppure la dannazione, può sembrare.
Pietro Edoardo Mallegni è nato a Carrara il 1 luglio 1995. Fin da piccolo nutre due grandi passioni: la cucina e la scrittura, amori che lo porteranno a intraprendere professionalmente la strada del cuoco e più marginalmente quella dell’appassionato scrittore di poesie. Nel 2013 ha pubblicato con la casa editrice Marco del Bucchia la sua prima raccolta, intitolata Il dedalo in me, nello stesso anno vince il premio “Michele Mazzella” con l’atto unico Geshua e il crollo dell’io, due anni dopo pubblica un’altra raccolta intitolata Il Dio Dada. Dal 2014 inizia a viaggiare per lavoro entrando in contatto con le grandi e lussuose cucine dei grandi alberghi, in uno di questi ha conosciuto Giulia la sua compagna. Nel 2017 è diventato babbo e ha deciso di tornare a vivere nella sua città natia. Tra il 2019 e il 2020, ottiene alcuni riconoscimenti tra i quali “ Menzione al merito per il concorso Internazionale di Poesia Fëdor Dostoevskij” ed è “ Poeta Finalista del Concorso Internazionale di Poesia Il Federiciano”. Nello stesso periodo escono due sue raccolte di poesia intitolate Neurocidio e Il nulla, rispettivamente pubblicate con le case editrici Limina Mentis ed Europa Edizioni.
E come segnalibro, adesso, lo scatto in posa della ballerina: l’anello al dito indice, le vertebre schiodate nell’arco di corpo chiuso.
Prima, ci si era solamente esercitati a essere giovani, a dissetarsi, a assolversi.
Come quando si ascolta recitare versi in una lingua che non ci appartiene: si canta il suono, si vive l’impazienza.
*
FINE D’ANNO
E siamo anche stati quel gesto mimato di riaprire il cassetto, come se ne fosse possibile l’idea.
Sono le mani che tracciano la storia: un vicolo di cenni, un cerchio, e tutto il resto.
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UNA JACQUERIE
Poi dici, «Siamo la guerra, la leggenda, il segnale che abbassa la frontiera, siamo il mare come se non esistesse e quel portarsi la memoria alla bocca».
La bandiera era quella: il pensiero di un bene che accade. Il sangue che tocca, un nome che chiama.
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IV
Sulla riva i germani raccolgono gli sguardi degli occhi disattenti, del successo. Non ho mai detto di me: ho solo scritto. Le dita quasi a incidere la balaustra. …..Come mai? Come mai ………… è sempre tanto tardi?
Luca Lanfredi è nato nel 1964 e vive e lavora a Brescia. Ha pubblicato le raccolte Il coraggio necessario (Lamantica Edizioni, Brescia 2019) con prefazione di Mauro Germani e Il tempo che si forma (L’Arcolaio, Forlì 2015; secondo classificato al Premio Internazionale di letteratura Città di Como; finalista al Premio “Solstizio” per opera prima, Fondi) con prefazione di Giacomo Cerrai. Una breve silloge, A mezza luce, è apparsa in formato e-book nel maggio 2009 per Clepsydra Edizioni. Suoi testi sono ospitati sul sito del poeta Nanni Cagnone e apparsi su blog quali: Poesia di Luigia Sorrentino; Imperfetta Ellisse di Giacomo Cerrai; margo di Mauro Germani e Carteggi letterari.
Tratta I La perlustrazione scalena delle carrozze accerta la presenza di un assenso breve: la striscia sul vetro si ripete vagone dopo vagone. Il regime atroce del quasi imperversa su polpastrelli e palpebre perché tattile è il guardare un fondo cieco, ricercare la biglia nella sabbia.
Siamo all’oscuro di tutto eppure ci sentiamo al sicuro.
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Tratta II Non c’è stato tempo per capire che il corpo dopo il fischio si fa lieve. Il biglietto obliterato, la matita tra i capelli o nelle tempie, dire sì perché e a te che va la voce.
Ho provato a ridestare le ore, disfarmi al contrario sopra un orologio. Poi ho inseguito fin dove c’è stato spazio
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Tratta III Ci aspettavano da un’altra parte, due ore prima, qualche minuto dopo. Ci volevano mettere alla prova ma ho corso da sola tutte le carrozze, ho perso il fiato. E le gambe. Le braccia. Qualcosa è esploso, qualcosa ha distrutto tutto.
Il sibilo è rimasto. A te. A me, la luce
Alessandra Corbetta (Erba, 1988) è dottore di ricerca in Sociologia della Comunicazione e dei Media e lavora come Adjunct Professor e Teaching Assistant presso l’università LIUC Carlo Cattaneo. Ha conseguito un master in Digital Communication e uno in Storytelling. Ha fondato e dirige il blog Alma Poesia (www.almapoesia.it), con il quale ha anche curato la pubblicazione del volume Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete (Puntoacapo Editrice 2021). Collabora con il blog spagnolo di letteratura e poesia Vuela Palabra, scrive per il giornale online Gli Stati Generali e per Rete55 conduce la rubrica “Poetando sul sofà”, dedicata a grandi autori della poesia italiana. La sua ultima pubblicazione in versi è Corpo della gioventù (Puntoacapo Editrice 2019). Sue poesie sono presenti in diverse antologie e tradotte anche su riviste straniere.
Non consumare di pena i tuoi incalliti contorni. Sei dolcezza mutilata dallo sterpo delle vertebre, dal tumore dei giorni.
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Era ottobre che la luce si lasciava oltraggiare dalla triste stagione. E noi poco amati, cresciuti d’ignavia come cose di poco valore. E sotto l’anfiteatro della Dea fortuna, l’inerzia del cielo; le sagome brevi del nostro vangelo, attecchirsi alla notte per non fare gelo.
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Abito il sintomo di una febbre primordiale, la prima ferita di questo franare; l’adolescenza dell’oblio: il muto dialetto di Dio.
Riccardo Delfino nasce a Roma il 28 settembre 2000. Inizia a scrivere dai suoi 11 anni. Nel 2012 vince il secondo posto al concorso leoni di ferro e il primo premio al concorso città di casoria “Le parole dell’anima”. È un arbitro di calcio e studia filosofia all’università “La sapienza” di Roma.