Michele Ghiotti – Bocche che non sanno stare chiuse #2

LA POESIA CONTEMPORANEA ROMAGNOLA:
UN BARBARICO YAWP, UNA CONCRETEZZA VISIONARIA

Luca Monterastelli, Oh Seagulls, Oh Seagulls, Who’s Gonna Take Care of Our Skulls?, 2019, cemento armato

UN BARBARICO YAWP

Un lato del temperamento che, suggestionato da Pound, mi piace pensare come eminentemente romagnolo è l’esuberanza barbarica e pulsionale, il vitalismo agonistico che erompe dai versi di quei poeti che amano frequentare le terre estreme, liminali, desertiche. Quei poeti, insomma, che si spingono oltre il Reno e il Danubio per inoltrarsi nel selvatico, nel primitivo, alla ricerca dell’altro e dello straniero.

Davide Rondoni è sicuramente uno di questi. Già i titoli delle sue raccolte, da soli, evocano nella loro ruvida, cotogna schiettezza una propensione a non addomesticare le parole e la visione: Il bar del tempo (Guanda, 1999), Avrebbe amato chiunque (Guanda, 2003), Apocalisse amore (Mondadori, 2008), Rimbambimenti. Poesie di tipo romagnolo (Raffaelli, 2011), Si tira avanti solo con lo schianto (WhyFly, 2013), La natura del bastardo (Mondadori, 2017).

È una poesia indubbiamente cristiana, quella di Rondoni, figurale, biblica. Ma di un cristianesimo alemanno, srazzato, apocrifo, assolutamente non monastico, in qualche modo precristiano. Un cristianesimo che non schifa – ma anzi cerca con smania di prete da strada – il simposio, il saturnale, la suburra: ogni luogo, ogni momento può essere eucaristico. Ci sono una crudele innocenza di satiro e un’obliqua saggezza di sileno nel suo sguardo: nessuna vergogna di godere a cielo aperto, né di sognare o maledire ferocemente, né di commuoversi o pregare, divorati dalla gratitudine. Così, in un dettato che dalla cronaca si leva in profezia, Rondoni scoperchia il tabernacolo:

Quando anche tu ti fermerai in questo grande
autogrill e il viso stanco
vedrai rapido
sui vetri, sull’alluminio del banco,

sarà una sera come questa
che nel vento rompe la luce
e le nubi del giorno, sarà
un grande momento:
lo sapremo io e te soli.
Ripartirai
con un lieve turbamento, quasi
un ricordo e i silenzi delle scansie di oggetti,
dei benzinai, dei loro berretti,
sentirai alle tue spalle leggero
divenire un canto.

La felicità del tempo è dirti sì,
ci sei, una forza segreta
uno sgomento ti fa, non la mia
giovinezza che cede, non l’età
matura, non il mio invecchiamento –
la nostra vera somiglianza
è là dove non si vede.

Mio figlio, mio viaggiatore,
sarà il tuo inferno, la tua virtù
questo udito da cane o da angelo
che sente all’unisono il giro dei pianeti
e la pastiglia cadere nel bicchiere
due piani sotto, dove due vecchi
si accudiscono.
Sarà questo amore strepitoso
tuo padre, quello vero.

Fermati ancora in questo autogrill,
dal buio mi piacerà rivederti…

(Spread the love, da Il bar del tempo)

Ipercinetico enthusiasmós di derviscio, giocondità di fauno, sguardo ghignante di

trickster: quello di Roberto Mercadini (nato a Cesena nel 1978, ma residente a Cesenatico), scrittore, divulgatore e pirotecnico performer teatrale, è un canto insieme epico e surrealista, eroico e crepuscolare (suo concittadino è – guarda caso – Marino Moretti, autore di Poesie scritte col lapis), “in mangh ’d camisa, svidurê int e’ pét” (per dirla con Spallicci). Procede per accumulo, innesca maelstrom, vuole farsi Urlo alla Ginsberg, vuole dare voce, whitmanianamente, alle contradditorie moltitudini dell’interiorità e della visione. Nei suoiMadrigali per surfisti estatici (Il Ponte Vecchio, 2011) Mercadini leva uno YAWP barbarico, anzi, nello specifico, ostrogoto, che coniuga un certo fascino per la tradizione e l’affabulazione con una gioia tribale e iconoclasta. Così, sullo sfondo di un Ragnarok esopico, appare un colosso zoomorfo che pare uscito dalle Operette morali:

[…] “L’asino cosmico è la forza immensa
che sostiene e trascina
il peso del mondo:
mali, torti, dolori.
E una bestia antica,
macilenta, dolente,
con le orecchie smangiate,
spelacchiato,
azzoppato;
il carico gli si ispessisce sulla schiena
giorno a giorno
finché
– dai e dai –
una goccia farà tracimare la misura:
sarà uno scempio lieve,
un insulto distratto,
l’ultimo sguardo sufficiente d’un borioso,
l’ultima volta che non si chiede “permesso?”
e l’asino s’impunterà, sfinito.
Le ginocchia prenderanno a tremargli
paurosamente
poi di schianto
stramazzerà dando il raglio mortale:
un raglio
lungo, straziato, spaventoso
sopra i cieli.
Farà scoppiare i timpani,
la terra vacillerà come un ubriaco,
il sole cadrà in ginocchio,
i fiori balzeranno dal suolo come pantere.
Alé! L’universo in frantumi,
rovesciato
fuori dai sacchi.
La collana delle stelle si spezzerà,
cascheranno come perle su un pavimento,
gli oceani si azzufferanno,
gli imperatori diverranno neonati,
muti i poeti,
i pesci
canteranno il Tannhàuser.
Si squarceranno ustioni ovunque,
fiammerà un bianco di colombe abbagliate.
Poi
più nulla.
Nulla.
In eterno.
Perciò ti devi comportare bene,
boja de vigliac!”

(L’asino, da Madrigali per surfisti estatici.)

Immaginazione inaddomesticabile, belva rara votata alla cattività, quella di Sofia Fiorini. Una sensibilità estrema, di un Marsia scuoiato che non rinuncia a intonare il suo canto. L’autrice riminese, classe 1995, scelta da Antonio Riccardi come finalista al Premio Rimini per la poesia giovane, ha esordito con La logica del merito (Internopoesia, 2017). Il libro è diviso in cinque sequenze: Le promesse, Le croci, Il pegno della terra, I fiori, La grazia. “Simbolico” – scrive Andrea Massaro – “è il miscuglio tra termini religiosi e naturali, in una sorta di paganesimo che sacralizza tanto l’amore quanto la sofferenza”.

“Anche dove come la voce poetica cerca il suo oggetto in lavoratissime e preziosissime immagini, non viene meno una grazia – quasi feroce, ma viva e lucente” (Davide Rondoni.) C’è un sentimento del mondo selvaggio e primitivo, spietato e insieme pieno di pietas. Una lancinante devozione esistenziale, fatta di preghiere e maledizioni, di ex voto e sguardi eretici, di piccoli miracoli e piccole apocalissi. È una religione senza cielo quella della Fiorini: tutta terrena, sotterranea, fatta di suolo e di serre, di tana e terremoto.

Quando dicevi di odiare le porte
per sbatterle di più, farti sentire,
e maledicevi alle stagioni
gli stessi fiori rossi che accudivi,
sappi, io ho ascoltato ogni bestemmia;
te lo vedo ogni volta sulla faccia
che è la tua infedeltà concessa.
Se è così che provi a non morire,
ancora ti permetto di guardare:
sarò per te il ciclamino cremisi,
ti ripeterò nel tenermi al caldo.

(da La logica del merito.)

Ci troviamo di fronte a un atto di magia bianca e nera, insieme defixio e benedizione: i fiori rossi sono il simbolo della cura familiare, in un ibrido di premura e furioso senso di dovere. Vi fa da contraltare la consapevolezza che le urla e il malcontento sono “infedeltà concessa”, comprensibile e perdonabile: “Se è così che provi a non morire, / ancora ti permetto di guardare”. Il ciclamino cremisi – colore del martirio ma anche dell’istinto vitale del sangue – diventa infine emblema dell’io lirico, che, in un ribaltamento, sboccia e fiorisce per prendersi cura della nonna/madre mentre costruisce e protegge la propria identità.

UNA CONCRETEZZA VISIONARIA

Impossibile, passando in rassegna le varie facce del nostro prisma, non menzionare la concretezza visionaria, il coraggio improvvisatore, la febbre risolutoria che, mentre hanno permesso ad esempio agli uomini e alle donne della Riviera di inventare il turismo balneare, hanno fatto sì che i poeti di Romagna scrivessero versi pulsanti, vivi e concreti come non mai. Fiuto da segugi, furbizia volpina e scatto di leone (Machiavelli docet), nonché – per rimanere in tema – un senso circense e domatore (i.e. felliniano) dello spettacolo. Una spregiudicatezza nomade, zingara, da giostrai, da clown, trapezisti, girovaghi. Da mercanti di fiera, venditori ambulanti, abitatori e abbellitori della provincia suburbana.

Con lo stesso virtuosismo inventivo e la stessa prodigiosa capacità di sintesiil viserbese Elio Pagliarani ha foggiato la poesia forse più concreta e audacemente contemporanea mai scritta in Italia. Sperimentatore instancabile, protagonista delle neoavanguardie, Novissimo e “indipendente” del Gruppo ’63, trasformò un soggetto cinematografico in un poema-capolavoro, La ragazza Carla (Mondadori, 1962). Metodico, kubrickiano, fedele all’imperativo poundiano “Make it new” e armato della disinvoltura grafico-versificatoria majakovskijana, ha mescolato poema e racconto in versi, giocato con i generi e le forme, la metrica e il collage, usato e usurato la lingua parlata, sfilacciato la grammatica e la sintassi, predato cronaca e pubblicità per ricreare in presa diretta il continuum di una realtà che nessuno è riuscito, come lui, a riprodurre, costringendo i versi a farsi macchina da presa:

Di là dal ponte della ferrovia
una trasversa di viale Ripamonti
c’è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e Nerina.

Il ponte sta lì buono e sotto passano
treni carri vagoni frenatori e mandrie dei macelli
e sopra passa il tram, la filovia di fianco, la gente che
[cammina
i camion della frutta di Romagna.

Chi c’è nato vicino a questi posti
non gli passa neppure per la mente
come è utile averci un’abitudine

Le abitudini si fanno con la pelle
così tutti ce l’hanno se hanno pelle

Ma c’è il momento che l’abito non tiene
chissà che cosa insiste nel circuito
o fa contatto
o prende la tangente
allora la burrasca
periferica, di terra,
il ponte se lo copre e spazza e qualcheduno
può cascar sotto
e i film che Carla non li può soffrire
un film di Jean Gabin può dire il vero
è forse il fischio e nebbia o il disperato
stridere di ferrame o il tuo cuore sorpreso, spaventato
il cuore impreparato, per esempio, a due mani
che piombano sul petto

Solo pudore non è che la fa andare
fuggitiva nei boschi di cemento
o il contagio spinoso della mano.

Altrettanto concreto e visionario Mario Cicognani, grande autore ancora da riscoprire compiutamente: romagnolo di famiglia, bolognese di nascita, studente a Firenze e insegnante a Forlì e Milano, fu cultore di una “poesia secca, essenziale, fatta di cose; attenta, diremmo, a fotografare la vita” – e specialmente la periferia “del contado che si fa città”, popolata di “case in costruzione, distributori di benzina, officine, sale da ballo di basso grado […] camionisti, sciamare di ragazze dalle fabbriche, muratori giovanotti in motoretta” (Walter Della Monica). Si lasciò conoscere tardivamente, nel 1956, quando ormai quarantenne vinse a Cervia il Premio Trebbio con la lirica Metropoli:

Non hai l’astratta aureola dei santi,
acrobata murario, tu che scavi
sempre più cielo ed un più duro pane
ripaga il piede sull’abisso, l’acre
sudore: ma una semplice bustina 
di carta di giornale. E ora consoli
di una tregua il lavoro: ora contempli
da su, a cavallo di una congiuntura
precaria del traliccio, il panorama
dei parallelepipedi, la nera
rete di strade. Scatta in alto un nastro
d’asfalto tra i penitenziari, scorre
e ti allucina netta una teoria
repulsiva di blatte. Triste il cuore
si colma di una nausea di nafta. 

La sua è una scrittura che esprime l’amore per i “lati solidi e concreti della vita”, un amore freddo (ma solo in apparenza), schivo: un moderno amor de lonh, “che guarda con distacco le cose proprio perché le ama, perché sa che amarle vuol dire conoscerle, vederle nella loro oggettiva realtà.”

Un altro gigante silenzioso, che a lungo fece maturare i suoi versi, di una bellezza insieme mistica e tangibilissima, è Tito Balestra, nato a Longiano nel 1923, cultore d’arte e frequentatore di Guttuso, Ungaretti, Palazzeschi e Gatto (per il quale la poesia dell’amico “nella sua apparente popolare immediatezza è molto colta, nutrita proprio di buon sangue e di succhi antichi”). Sua quella che Tonino Guerra definì la poesia d’amore più bella del Novecento, in cui il sogno è così lucido che visione e realtà vengono a coincidere:

Anna ho comperato un pezzo di terra
ho un cavallo, una frusta e sollevo la polvere
e chiamo il vicino e gli tocco la spalla
oppure un altro, un sogno più piccolo,
io e te insieme abbiamo una stanza
e abbiamo vetri contro il vento e la pioggia
e un cuscino un po’ grande che basta per due;
guardami in faccia ho gli occhi castani.

Identica capacità di concretizzare il pensiero e distillare il sentimento ha la poesia dialettale Annalisa Teodorani, nata a Rimini nel 1978, di casa a Santarcangelo, dove ricopre il ruolo di Sindaca della Città della Poesia. Esponente di spicco del nutrito gruppo di poeti romagnoli che da decenni, sulla scia dei grandi maestri santarcangiolesi del “circal de’ giudèizi” – Raffaello Baldini, Gianni Fucci, Tonino Guerra, Nino Pedretti e Giuliana Rocchi – custodiscono e rinnovano il “parlar materno” (fra gli altri: Tolmino Baldassarri, Giuseppe Bellosi, Paolo Borghi, Paolo Gagliardi, Francesco Gabellini, Guido Lucchini, Leo Maltoni, Gianfranco Miro Gori, Fabio Molari, Giovanni Nadiani, Sante Pedrelli, Nevio Spadoni, Gino Vendemini), la Teodorani, dall’esordio Par sénza gnént(Per nulla, Luisè, 1999) aLa stasòun dagli amòuri biénchi (La stagione delle more bianche, Carta Canta, 2014) non ha mai smesso di ritrarre, deformare, scucire e ricucire la quotidianità. I suoi testi – spesso brevissimi, talvolta veri e propri haiku (Setèmbri: “Énca un zéi / e’ cmìnza a fè òmbra”; Settembre: “Anche un ciglio / comincia a fare ombra”) – presentano spesso capovolgimenti finali che ricordano l’aprosdoketon degli epigrammi classici e la sentenziosità degli apologhi zen: sono fulminei e succosi come un morso di mela, scattanti e ipnotici come lo scatto di una lucertola su un muricciolo. Così ritorna L’udòur de sàbdi (L’odore del sabato):

A n l’arcórd
l’udòur de sàbdi scapènd da scóla
arcórd snò ch’a séra lizìra
e l’aria d’atòunda
l’éra tótta da boi.
Non ricordo
l’odore del sabato uscendo da scuola
ricordo soltanto che ero leggera
e l’aria attorno
era tutta da bere.          


A suo modo erede della trasmedialità delle neoavanguardie e di Pagliarani è il lavoro di

Eugenia Galli (Rimini, 1996), alfiera di Zoopalco, associazione culturale che si occupa di promuovere la poesia orale nel suo incontro con la performance, il teatro, la spoken word music e l’e-lit. Seconda classificata al Premio Alberto Dubito di poesia con musica nel e nel 2018 (con la Monosportiva Galli Dal Pan), ha pubblicato alcuni suoi testi nelle antologie edite da Agenzia X: Rivoluziono con la testa (2017) e Il genere errante (2019). Nel 2017 e nel 2018 è stata finalista nazionale del campionato della LIPS – Lega Italiana Poetry Slam, di cui è coordinatrice regionale per l’Emilia-Romagna. Insieme a Tommaso Galvani ha tradotto la raccolta di K. Finneyfrock, R. McKibbens, M. Nettifee, Poesie per ragazze di grazia e di fuoco (Rizzoli, 2018). La sua è una poesia più che concreta, iperconcreta, iperrealistica, che nel momento della performance esplicita e fonde tutte le componenti del testo – ritmo, immagine e discorso (Pound parlerebbe di melopea, fanopea e logopea) – attraverso il corpo, insieme medium e soggetto dell’operazione artistica. Molti testi della Galli, infatti, ruotano intorno al grande rimosso dell’era digitale, offerto al pubblico – alla maniera della Abramović – nella sua concretezza, nel suo peso, nella sua realtà fatta di carne, pulsioni, desiderio e malattia. È una poesia, però, anche visionaria, potentemente cinematografica e immersiva. Una parola agonistica, che si guadagna con i morsi e le unghie ogni centimetro di verità, che ferisce l’ascoltatore con analogie acuminate. Così, in Padre, che pare rievocare la dolorosa ferocia della Plath, deflagrano l’archetipo e il ricordo:

 A mio padre e a Piergiorgio

Padre che già ti trasformi in tuo padre,
muto animale ordinato che conta
i figli che ritornano alla cuccia

Padre cane che hai visto e lottato,
ti sei guadagnato il pasto migliore
in barba a chi ti voleva avvocato

Cane che hai fatto per anni il padrone
e ti soffiavo sul muso impotente
la puzza di paura e altre bestie

Ora taci sulla ciotola –
che una sola parola non scateni
il cucciolo coi denti più affilati,
che non rida di te, vecchio lupo consumato,
capobranco per ancora chissà quanto
finché il tuo occhio chiuso fa paura
e trattiene tutti i boschi e tutti i mari
e le bestie in agguato sulla culla.

Padre, alla conta di un padre stasera
manca un figlio che è stato mio amico
preso dai mostri che tu scongiuravi.

Stai ancora in silenzio
mentre la mamma mi abbraccia e mi dice:
“Adesso devi solo ricordarlo
e mantenerne viva la memoria
e poi sputare in faccia a quelle bestie
di cui non hai paura”.

Michele Ghiotti (23 novembre 1989) è nato a San Marino, dove vive e insegna Lettere al Centro di Formazione Professionale. Suoi versi sono stati selezionati dallo scrittore e poeta Davide Rondoni per il concorso In che verso va il mondo e dal poeta e critico milanese Maurizio Cucchi per La bottega di Poesia de «La Repubblica» (ed. Milano). Sulle riviste «Crack», «Carie» e «Retabloid» sono apparsi due suoi racconti brevi, Diario metempsicotico e A volte l’aria è più solida del cemento. Recentemente ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie Preistoria primavera (Italic Pequod, 2021)

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