Nella scorsa edizione di Zoom (recupera l’intervista a Sonia Formica cliccando qui) ci siamo lasciati parlando di viaggi. È giusto quindi cogliere l’occasione per allontanarsi dal proprio confine e iniziare ad approfondire anche artisti geograficamente più lontani dal nostro luogo di appartenenza. In questo caso, però, ci spostiamo solo di qualche chilometro e oltrepassiamo l’appennino tosco-emiliano arrivando fino a Firenze, città dove lavora e opera l’artista che vi proponiamo oggi.
Antonio Cugnetto è un artista di origini calabresi ma che ormai da diversi anni risiede in Toscana, a Firenze. Il suo curriculum è variegato di esperienze, in Italia e all’estero, così come è variegata la sua produzione: svaria infatti tra pittura, street art, scultura e tattoo.
Abbiamo fatto una chiacchierata con Antonio per approfondire il suo operato, parlando del suo percorso e delle sue influenze, tra tatuaggi, riciclo e Tim Burton.

D: Seguendo un po’ il tuo operato la prima cosa che salta all’occhio è che tua produzione è variegata in maniera incredibile. Passi dalla pittura alla scultura, all’attività di tatuatore seguendo uno stesso filo conduttore, ma che allo stesso tempo fa mantenere ad ogni arte che utilizzi una propria identità ben definita. Questo fa ipotizzare che ogni emozione che cerchi di esprimere abbia un proprio canale a cui dare sfogo senza intaccare di rimando gli altri tipi di attività.
Ti va di raccontarci come nasce e si sviluppa il tuo senso artistico e se hai un metodo che prediligi rispetto ad un altro o se, invece, sono tutti sullo stesso piano?
R: Il mio percorso nasce inizialmente sui muri, verso l’età di 10-12 anni, dove ho iniziato a rappresentare i primi personaggi, prima con lo spray poi successivamente a pennello. Dopo diversi studi accademici, mi sono invece approcciato al mondo della scultura cercando di evitare l’utilizzo di materiali classici, quali marmo, rame e bronzo. Ho cercato di avere un approccio più vicino al mondo dell’ecologia cercando di trovare qualcosa di già esistente: guardo un oggetto con altri occhi perché parto da una prospettiva differente. Un concetto un po’ alla Duchamp.
Per quanto riguarda invece le diverse attività che faccio, penso che ogni arte abbia il suo ruolo. Per esempio pittura e scultura non hanno niente a che fare con il tatuaggio. Il tatuaggio è una storia che condividi, anche se un cliente ti lascia “libero” di realizzare ciò che vuoi, ci sarà sempre un elemento che crea una specie di filtro nella maniera in cui ti esprimi. Nel tatuaggio si agisce su qualcosa che ha già una vita e di conseguenza non si avrà mai la liberta al cento per cento. Invece, quando si dipinge o si crea una scultura, si dà vita a qualcosa di nuovo attraverso elementi che prima non esistevano. Anche se mi piace molto tatuare e ho la fortuna di avere molti clienti che mi chiedono dei miei personaggi, molte volte sono prestati a un loro concetto di partenza come è giusto che sia.
In conclusione penso che la chiave pura per esprimersi siano le arti dove si è più liberi, quindi la pittura, la scultura, il disegno, lo sketch.

D: Parlando delle tue sculture è molto interessante come attuale la filosofia che utilizzi per dare vita alle tue opere. In questo momento storico il mondo è particolarmente sensibile alle tematiche ecologiche, basti pensare ai movimenti del “Fridays for future” o alle recenti norme obbligatorie sulla raccolta differenziata.
È ancora però difficile trovare artisti che utilizzino questa linea di pensiero come parte integrante della loro produzione e, di conseguenza, penso sia un intento molto nobile da parte tua utilizzare oggetti che hanno terminato il loro “ciclo vitale”.
In che modo riesci a ridonare vita ad un oggetto vecchio trasformandolo in un elemento nuovo?
R: Tutto il lavoro delle mie sculture nasce attraverso oggetti inutilizzati, per esempio: vecchie grucce, sfere di natale, bicchieri, tappi di cosmetici. Prendo oggetti di uso comune che normalmente andrebbero cestinati e li guardo con altri occhi. Tutti questi elementi messi insieme creano un nuovo concetto, un nuovo personaggio, che attrae sia l’occhio dell’adulto che quello del bambino. Anche se poi le tematiche che tratto sono parecchio emblematiche, per esempio parlo di attualità, problemi di ceto sociale, ecc.
L’assemblaggio di una scultura nasce dagli ultimi pezzi: per fare i volti uso delle sfere di natale – quelle che già dal prossimo anno non ci servono più perché vorremo fare l’albero di un colore diverso –, per le orecchie uso vecchi tappi dei prodotti cosmetici. I vestiti vengono invece fatti tutti in gomma, ritagliati a mano. I piedi sono la parte finale delle grucce che viene sezionata e poi ricomposta. In più, ci sono altre componenti derivanti da flûte di plastica, pennelli e bicchieri.
Quello che mi attrae delle sculture è questo concetto di un uomo di plastica, finto, che, oltre al suo aspetto lineare e pulito, giunge da tutt’altra origine. È un po’ come siamo noi oggi: tutti di plastica e rifatti.

D: Infatti mentre guardavo alcune foto delle tue sculture mi è venuto in mente un cartone animato: Coraline e la porta magica. Nel film la protagonista, riferendosi al mondo che trova aldilà della porta magica, dice: «Qui tutto è più bello, ma è una trappola».
Quindi attraverso i tuoi personaggi denunci il mondo di cui facciamo parte, dove ci sforziamo di apparire sempre in ordine quando in realtà la verità che sta alla base è ben diversa.
R: Sì, la realtà di oggi è troppo costruita, molto distante da com’è in realtà. Si vive molto per come si appare e per avere l’approvazione generale della società. Per essere accettati bisogna essere etichettati in un certo modo, vestirsi in un modo rispetto a un altro e, se anche solo visivamente non si rientra in una determinata categoria, si viene considerati uno scarto.
Il mondo di oggi è come un contenitore in cui abbiamo messo sempre più oggetti e continuerà ad essere così finché non sarà completamente saturo. Invece di continuare a produrre a oltranza, basterebbe guardarsi un po’ attorno e vedere che si riescono ad ottenere altrettante cose senza stremare l’ambiente.

D: L’universo dei tuoi personaggi racconta quindi un mondo visivamente perfetto ma che allo stesso tempo lascia trapelare una calma oscura e inquietante. Mi ricorda molto l’immaginario di Tim Burton dove i personaggi e gli ambienti sono volutamente bizzarri, all’interno di un ecosistema decadente ma con un suo equilibrio. L’esempio calzante di questo concetto è la tua opera Eternity, dove uno dei tuoi personaggi è intento a suonare il violino. Oppure Emblem dove il protagonista con gli occhi incisi a croce guarda un libro a terra con davanti una lunga scala nera.
Da dove cogli l’ispirazione per raccontare le storie dei tuoi personaggi, e c’è qualche storia particolare che ha influenzato la creazione delle tue opere?
Io sono un appassionato di Sylvain Chomet, regista francese di Appuntamento a Belleville, e ovviamente anche di Tim Burton. Non credo si possa nascondere la loro influenza e penso che sia molto evidente. Infatti, oltre alle sculture, realizzo anche degli stop motion.
La scultura del violinista nasce attraverso un mio collezionista di Hong Kong che inizialmente voleva acquistare Incomprensibile Plan, il pianista. Poi, quando mi ha raccontato la sua storia, ho accettato volentieri di realizzare questo che è uno degli ultimi pezzi.
È stato realizzato sempre con oggetti di recupero, tranne il violino che per l’occasione è stato fatto a mano e interamente in legno.
Per quanto riguarda Emblem, rappresenta un po’ il periodo particolare che stiamo passando. C’è un uomo davanti a una scala e non è chiaro se abbia intenzione di salire o se la stia solamente studiando. Penso sia un concetto di vita il non sapere se salire-scendere, se un giorno sarai in cima o se sei fermo ad aspettare. L’uomo è intento ad osservare il suo libro ed è un po’ come se stesse facendo una ricerca su sé stesso.
Quando realizzo un’opera mi lascio trasportare da ciò che mi comunicano gli oggetti: non c’è mai una vera e propria idea di partenza. Penso che ogni opera abbia una sua dimensione capace di raccontare un momento particolare, come appunto in questo caso.


Alessandro Assirelli